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Fatti e fattoidi attorno al “Sistema” di Sallusti e Palamara

Giovanni Fiandaca

Il libro-denuncia sulla giustizia italiana fra verità lapalissiane, tesi da dimostrare e (poche) proposte

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Vale la pena leggere il libro-intervista di Sallusti-Palamara, ghiottamente intitolato “Il Sistema. Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana” (Rizzoli, 2021), che in questo momento va a ruba? In realtà dipende dal tipo di lettore. Chi sia incuriosito dall’autodifesa di Palamara, intrigato dagli schizzi di mascariamento lanciati su note figure di magistrati anche di vertice o desideroso di conoscere vicende, fatti o “fattoidi” (cioè possibili, ma non riscontrati), circostanze ed episodi denunciati per proiettare ombre discreditanti sul sistema giudiziario, potrà pascersi di una certa quantità di cibo gustoso (ma avrà disponibile un menu pur sempre limitato, essendo l’ottica autodifensiva dell’ex potentissimo pm inevitabilmente selettiva e strumentalmente parziale). Rimarrà, invece, abbastanza deluso chi si aspetti analisi approfondite dei risalenti e persistenti mali del nostro sistema-giustizia e, in particolare, di alcuni irrisolti nodi di fondo relativi al rapporto fra politica e magistratura, considerati anche sotto l’angolazione tutt’altro che secondaria della interazione col sistema mediatico.

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Vale la pena leggere il libro-intervista di Sallusti-Palamara, ghiottamente intitolato “Il Sistema. Potere, politica, affari: storia segreta della magistratura italiana” (Rizzoli, 2021), che in questo momento va a ruba? In realtà dipende dal tipo di lettore. Chi sia incuriosito dall’autodifesa di Palamara, intrigato dagli schizzi di mascariamento lanciati su note figure di magistrati anche di vertice o desideroso di conoscere vicende, fatti o “fattoidi” (cioè possibili, ma non riscontrati), circostanze ed episodi denunciati per proiettare ombre discreditanti sul sistema giudiziario, potrà pascersi di una certa quantità di cibo gustoso (ma avrà disponibile un menu pur sempre limitato, essendo l’ottica autodifensiva dell’ex potentissimo pm inevitabilmente selettiva e strumentalmente parziale). Rimarrà, invece, abbastanza deluso chi si aspetti analisi approfondite dei risalenti e persistenti mali del nostro sistema-giustizia e, in particolare, di alcuni irrisolti nodi di fondo relativi al rapporto fra politica e magistratura, considerati anche sotto l’angolazione tutt’altro che secondaria della interazione col sistema mediatico.

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Che la giustizia penale nel nostro paese svolga da decenni un ruolo protagonistico all’interno di un complesso e articolato gioco sistemico, che essa eserciti un forte potere latamente politico, idoneo a condizionare o influenzare le dinamiche e gli equilibri del sistema democratico, la definirei – piaccia o non piaccia – una verità ormai acquisita (come tale riconosciuta anche, sul piano cosiddetto scientifico, da studiosi di diversa matrice disciplinare e di differente appartenenza ideologica). E questa centralità politica della giurisdizione penale, a sua volta, sia pure in diversa maniera e misura, emerge sui distinti – ma per certi versi interconnessi – versanti: a) quello del controllo di legalità esercitato sul ceto politico mediante indagini e processi (basati peraltro, a loro volta, su interpretazioni delle leggi penali non di rado controvertibili e su ricostruzioni probatorie non di rado opinabili); b) quello dei rapporti, anche informali, che si instaurano tra i leader dell’associazionismo giudiziario e il mondo politico-istituzionale; nonché, c) degli orientamenti che le correnti associative e il Csm assumono nel formulare pareri sulle riforme della giustizia in cantiere, nel prendere posizione a difesa dell’autonomia e dell’indipendenza dei magistrati, nel delineare indirizzi di politica giudiziaria e, non ultimo, sia nello scegliere i capi degli uffici giudiziari sia nel gestire la funzione disciplinare.

 

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Che cosa dice di significativo o di nuovo su tutto questo il libro-intervista? Provando a sintetizzare – per dir così – il succo concettuale dell’approccio di Sallusti e Palamara, comincio dall’interrogativo principale: cosa è il “sistema” cui il titolo allude per veicolare sin da subito l’idea che, se Palamara ha sbagliato, le colpe non sono solo sue ma sono anche imputabili alla complessiva realtà sistemica di cui egli è stato uno dei principali protagonisti? Non a caso, direi, Sallusti e Palamara intendono per sistema una entità generica, indeterminata, cangiante, ambigua: una nebulosa che serve a dire e a non dire, che fa sospettare regie preordinate e manovre oscure (che, però, non vengono poi spiegate davvero) e in cui non è neppure chiaro e univoco il ruolo giocato dai personaggi di volta in volta evocati. A ben vedere, il richiamo di questa entità fantasmatica e sfuggente tende a coprire, con i panni nobilitanti di una (presunta) analisi sistemica, quella che infine appare l’interpretazione riduttrice, semplificatrice e tutt’altro che disinteressata delle ragioni dell’espulsione subìta che Palamara imbastisce a fini autogiustificativi. In poche parole, infatti, la tesi è questa: sarebbero state le correnti associative di sinistra (considerate tradizionalmente predominanti nell’orientare la cultura e la politica magistratuali), in combutta con la vecchia sinistra politica avversa al renzismo moderato e rampante, a far fuori il filorenziano Palamara per punirlo di un grave peccato. Cioè quello di avere osato provocare una rottura della consolidata alleanza egemonica tra la sinistra giudiziaria (Magistratura democratica, poi confluita nella più composita corrente progressista di Area) e Unicost (corrente centrista), spingendo quest’ultima a stringere un’intesa con la corrente di destra (Mi) capeggiata da Cosimo Ferri.

 

E’ plausibile questa ipotesi ricostruttiva che spiega la caduta di Palamara in chiave di conflitto e rivalsa tra cordate politico-giudiziarie in competizione? Ammesso e non concesso che l’ipotesi possa non essere del tutto priva di plausibilità, certo è che il libro-intervista è ben lungi dal dimostrarne la fondatezza. Anzi, a dire la verità, sembra piuttosto esserci qualche pezzo dissonante. Mi riferisco al ruolo che viene assegnato al procuratore di Roma (oggi in pensione) Giuseppe Pignatone: il quale si sarebbe trasformato, da iniziale estimatore e amico, in cinico e infido esecutore della “sentenza di morte” ai danni di Palamara trasferendo alla procura di Perugia gli atti dell’inchiesta per sospetta corruzione da parte dell’imprenditore Centofanti. Senonché, essendo stato Pignatone un magistrato tutt’altro che militante nella sinistra giudiziaria (e, non soltanto a giudizio di chi scrive, un magistrato non facilmente proclive a un uso del potere d’accusa asservito a logiche correntizie), risulta oggettivamente difficile credere alla tesi di un Pignatone complice di una vendetta per via giudiziaria; vendetta per giunta ordita da un “sistema” costituito, in questo caso, da non meglio identificati magistrati e politici di sinistra alleati tra di loro per recuperare una egemonia politico-culturale perduta.

 

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Si aggiunga, in proposito, un dato temporale: se ben ricordiamo, la magistratura di Perugia è stata investita del caso Palamara nel maggio 2018, cioè alcuni mesi prima del grande patto associativo di potere tra Palamara e Ferri sfociato, nel settembre di quello stesso anno, nella votazione del renziano Davide Ermini a vicepresidente del nuovo Csm. Si sarebbe dunque trattato di una vendetta eseguita anticipatamente? O di una ritorsione concepita abbastanza prima, in seguito cioè al contributo determinante fornito da Palamara membro del precedente Csm alla designazione – sulla base di una ricercata e già riuscita intesa con la corrente di destra – di un procuratore generale e di un primo presidente di Cassazione entrambi non di sinistra? Da ex componente dell’organo di autogoverno (consiliatura 1994-1998), ho potuto sperimentare che le varie correnti, ancorché trasformatesi sempre più da luoghi di elaborazione culturale a strutture e macchine clientelari di potere, operano pur sempre sotto l’influenza di fattori di condizionamento eterogenei e complessi interpretabili secondo più chiavi di lettura. Per altro verso, Sallusti e Palamara toccano punti problematici reali, che si riferiscono non a caso e ancora una volta, per un verso, al tormentato rapporto tra giustizia penale e sistema politico e, per altro verso, al più ampio circuito politico-mediatico-giudiziario.

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Ad esempio, a proposito dell’accanimento investigativo nei confronti di Berlusconi (che, come studioso e osservatore di lunga data di vicende giudiziarie, anch’io sono disposto a riconoscere per tale), leggiamo a pag. 92 queste considerazioni di Palamara: “(…) non esisteva più, e dubito che oggi esista, un confine netto tra la legittima difesa degli interessi della giustizia e l’uso strumentale della giustizia stessa per i fini politici di una parte della magistratura, parte che trova nella sua corrente di riferimento copertura e protezione, e nel partito politico di riferimento, il Pd, un socio interessato”. Ora, a parte l’ovvia obiezione che la strumentalizzazione politica della giustizia non è una colpa ascrivibile alle sole forze di sinistra, un punto assai debole dell’intervista è proprio questo: la grande questione di fondo relativa alla legittimità di un occhiuto controllo penale sollecitato da pregiudiziale opposizione o avversione politica contro capi ed esponenti di un fronte politico percepito come nemico, viene nel libro scandalisticamente sollevata ma non seriamente discussa. Forse, affrontarla sul serio presupponeva uno spessore culturale e una capacità analitica di cui sia l’intervistatore che l’intervistato non sono sufficientemente provvisti. Eppure, tornano a imporsi domande che non dovrebbero rimanere eluse del seguente tipo. Basta a giustificare un accanimento giudiziario ispirato da scopi politici la possibilità di rinvenire comunque qualche ipotesi di reato, ancorché di dubbia o forzata configurabilità? O, nonostante questa possibilità, vale anche per i magistrati d’accusa un principio prospettato più in generale dalla stessa Cassazione in tema di abuso di ufficio (e ribadito pur dopo la recente riforma “restrittiva” di questo reato) – il principio cioè per cui rappresenta una illecita deviazione dai fini istituzionali il perseguimento, nel concreto esercizio di una funzione pubblica, di obiettivi difformi da quelli per i quali il potere d’intervento è stato legalmente attribuito?

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Riaprire il dibattito su interrogativi come questi – includendo altresì nell’orizzonte di riflessione gli aspetti più discutibili della cosiddetta rivoluzione giudiziaria di Mani pulite, da riesaminare ormai a un trentennio di distanza anche per gli effetti di lungo periodo che ne sono derivati sul piano del costume giudiziario – potrebbe (e, a mio avviso, dovrebbe) fungere da banco di prova e da occasione di autocoscienza collettiva per una magistratura che aspiri davvero oggi a riconquistare autorevolezza e credibilità. Ma questo percorso di autoriflessione non dovrebbe svilupparsi in modo chiuso e autoreferenziale: auspicherei che il potere giudiziario possa finalmente mostrarsi interessato davvero a interloquire e confrontarsi con la migliore cultura giuridica di matrice accademica, dismettendo una buona volta il consolidato vizio e vezzo di ricercarla o corteggiarla e di ignorarla o criticarla quando a esso appaia rispettivamente più conveniente l’uno o l’altro atteggiamento.

 

Un ulteriore campo di problemi aperti che il libro tocca, come già detto, riguarda il più ampio circuito politico-mediatico-giudiziario. In proposito, a pag. 95 del libro-intervista Palamara afferma: “(…) una procura indaga, un giornale lancia una campagna mediatica, e un partito – il Pd – da tutto questo trae vantaggio politico”. Che questo perverso collateralismo, in chiave di reciprocità di sostegni e favori, tra settori rispettivi del mondo politico-partitico (Palamara insiste nell’evocare in particolare il Pd, ma avvantaggiate a seconda delle contingenze possono ovviamente risultare pure altre forze politiche), dei media e della magistratura inquirente esista e persista, è incontestabile e costituisce – direi – anche questa una verità indubitabilmente acquisita: e la funzione di spesso acritica grancassa o cassa di risonanza che il sistema della comunicazione esercita rispetto alle indagini dei procuratori è, talora, denunciata e stigmatizzata persino da qualche giornalista appartenente a importanti testate di prevalente orientamento filo magistratuale (emblematico ad esempio un articolo, che ho appositamente conservato nel mio archivio, dal titolo “Come uscire dal cortocircuito” a firma di Gianluca Di Feo sulla Repubblica dell’8 ottobre 2016; ma non mi risulta che lo stesso giornale abbia poi abbondato con autocritiche dello stesso tenore!). Ma, anche in proposito, Sallusti e Palamara si astengono dallo sviluppare analisi approfondite o dal suggerire rimedi. Dal canto suo, Sallusti si limita ad affermare a pag. 94: “Non per difendere la mia categoria, ma facciamo il nostro mestiere”; mentre nella stessa pagina Palamara ricorda che tra i magistrati circolerebbe la battuta: “La vera separazione delle carriere non dovrebbe essere quella tra giudici e pm ma tra magistrati e giornalisti”. Un po’ troppo poco, direi.

 

Ben più lucida, profonda e coraggiosa invece è, ad esempio, l’analisi che alle gravi distorsioni derivanti dal sovrapporsi del processo mediatico e del processo giudiziario dedica un ex alto magistrato di Cassazione di notevole spessore culturale e tecnico, come Francesco Iacoviello (se ne veda l’acuto e suggestivo saggio “La fuga del pubblico ministero dal processo”, pubblicato di recente in un volume collettaneo concepito per commemorare “Gaetano Costa 40 anni dopo”, il procuratore di Palermo ucciso dalla mafia nel 1980): la coesistenza dei due processi – rileva Iacoviello –, oltre a sollecitare pre-comprensioni a favore dell’accusa, dà luogo a una diffusa “zona grigia” che rappresenta una grave insidia per il giusto processo come diritto del cittadino. Consiglierei di leggere Iacoviello, e la ormai ricca letteratura sui guasti provocati dall’uscita del processo dalle aule di giustizia e dal suo trasferimento nel teatro mediatico, ai giovani magistrati e ai giovani giornalisti addetti alle cronache giudiziarie.

 

E’ fuori tempo massimo la speranza in un futuro ravvedimento degli appartenenti alle due categorie? Da studioso di lungo corso, mi sono sempre più convinto che il miglioramento complessivo della giustizia penale non dipenda da processi di mera rigenerazione morale della magistratura e/o da ennesime riforme normative: come ho scritto anche poco tempo fa su questo giornale, ritengo che sarebbe innanzitutto necessario un previo riorientamento culturale di tutti gli attori giudiziari, a cominciare dai pubblici ministeri. Ma il compito di modificare la cultura penale non può spettare al solo potere giudiziario, che oltretutto non ne avrebbe né la capacità né la forza; occorrerebbe, piuttosto, qualcosa di simile a una nuova pedagogia collettiva ad ampio spettro e di non breve durata, che coinvolga non solo gli addetti ai lavori ma anche le forze politiche, e persino i comuni cittadini. Facile a dirsi, molto più difficile a realizzarsi. Per fortuna, è anche vero però che il futuro talvolta smentisce le previsioni più pessimistiche.

 

 

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