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La Norimberga dei trojan

Giuseppe Sottile

E’ legittimo dare ai pm ulteriore potere di vita e di morte sulla politica? L’altro lato del processo Palamara

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Ma dove si è rintanato il mostro con le ali di fuoco che fino all’altro ieri se ne stava lì, pronto a scoperchiare le tombe, a strappare i veli dell’ipocrisia, a smascherare ogni trama criminale e ogni indicibile complicità? In quale caverna è finito il trojan, il famigerato cavallo di Troia che i pubblici ministeri di Perugia hanno inoculato nello smartphone di Luca Palamara, uomo forte del Consiglio superiore della magistratura, per raccogliere le prove della sua corruzione e rivelare i traccheggi che le correnti delle reverendissime toghe intramavano anche nottetempo per decidere carriere e promozioni, per spartirsi le nomine più prestigiose, per addomesticare o accelerare un’inchiesta scabrosa, per ammorbidire un processo, per condizionare una sentenza?

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Ma dove si è rintanato il mostro con le ali di fuoco che fino all’altro ieri se ne stava lì, pronto a scoperchiare le tombe, a strappare i veli dell’ipocrisia, a smascherare ogni trama criminale e ogni indicibile complicità? In quale caverna è finito il trojan, il famigerato cavallo di Troia che i pubblici ministeri di Perugia hanno inoculato nello smartphone di Luca Palamara, uomo forte del Consiglio superiore della magistratura, per raccogliere le prove della sua corruzione e rivelare i traccheggi che le correnti delle reverendissime toghe intramavano anche nottetempo per decidere carriere e promozioni, per spartirsi le nomine più prestigiose, per addomesticare o accelerare un’inchiesta scabrosa, per ammorbidire un processo, per condizionare una sentenza?

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Procure e uffici inquisitori assicurano che la spia più devastante e sbirresca inventata negli ultimi anni per tenere a bada corrotti e corruttori, mafiosi e terroristi, è sempre viva e lotta insieme a noi. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, si mostra soddisfatto dei risultati raggiunti con la strategia manettara e non intende lesinare risorse per acquistare i micidiali apparecchietti capaci di scandagliare la vita di chiunque: non solo dell’indagato, ma anche dei suoi parenti, dei suoi amici, dei suoi vicini di casa e di tutti coloro che sfortunatamente si trovano accanto a lui. Perché un trojan nascosto nel telefonino – e si è visto con Palamara, sospettato di avere preso una mazzetta di 40 mila euro per pilotare, dentro il Csm, una nomina alla procura di Gela – ha tutta la tecnologia necessaria per diventare una cimice in grado di intercettare le voci ambientali, di registrare ogni messaggio, ogni bisbiglio, ogni email, ogni whatsapp; di segnalare alla centrale d’ascolto se hai fissato un appuntamento, se hai guardato un post di facebook o ne hai scritto uno; se hai mandato un bacio a tua moglie, alla tua fidanzata, alla tua amante; se hai controllato il tuo conto in banca, se hai acquistato un gioiello con la carta di credito digitando il pin o il codice segreto.


Se la Camera alzerà il disco verde su Lotti e su Ferri, si spalancheranno per i cosiddetti magistrati coraggiosi nuovi orizzonti dell’uso e dell’abuso


 

A sentirli sono tutti felici e contenti: la cultura dello sputtanamento recluta ogni giorno nuovi proseliti, il giustizialismo dilaga, i forcaioli vivono, soprattutto nei social, i loro momenti di gloria. Per Bonafede, e tutti i fan della galera, è la pacchia. Ma c’è un però. Anche se ufficialmente nessuno ammetterà mai di avere tirato il freno a mano, un dato è certo. Il trojan inoculato nel telefonino di Palamara ha provocato un terremoto che è andato oltre ogni previsione; uno tsunami che ha ridotto in cenere e fango, per dirla con Giobbe, le superbe architetture della giustizia, che ha inquinato la credibilità della magistratura, che ha fatto a pezzi l’immagine sacra e immacolata di molti procuratori chiamati spesso ad esercitare quel ruolo non per i loro meriti o per la loro terzietà, ma in virtù di accordi sottobanco stipulati nelle conventicole del Csm o addirittura nella hall di un albergo. Uno scandalo dalle dimensioni fino all’altro ieri inimmaginabili. Con dimissioni a catena, con la decapitazione dell’Associazione nazionale dei magistrati, con la delegittimazione dell’organo di autogoverno dei giudici e con il grande imbarazzo del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che del Csm è il presidente effettivo per diritto costituzionale.

 

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Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che un semplice sospetto di corruzione – ancora tutto da verificare, e in parte già smantellato dallo stesso ufficio dell’accusa – avrebbe provocato un danno pressoché irreparabile a un sistema che, sotto sotto, faceva comodo a tutti, ai carrieristi e ai giudici parrucconi; persino ai cosiddetti magistrati coraggiosi, quelli delle retate clamorose e dei processi in tv, che poi trasferivano sul piatto delle promozioni il successo mediatico delle loro imprese ovviamente “eroiche e straordinarie”. Nessuno avrebbe potuto immaginare la gogna e la vergogna che il trojan avrebbe sparso su una casta bramina che fino all’altro ieri credeva di essere l’unico potere puro e duro, di incarnare il bene contro il male della politica, di essere l’unico custode della legalità e della retta via. Palamara era una pietra incuneata tra l’ipocrisia e la realtà. Il trojan l’ha sollevata e ha mostrato al mondo che sotto c’erano non una ma cinque, dieci, cento colonie di vermi.

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A partire da domani i pochi santi rimasti in piedi tra tante macerie cominceranno la difficile opera di bonifica. La commissione disciplinare del Csm – un Csm malfermo e traballante – aprirà ufficialmente il processo a Palamara e agli altri nove magistrati segnati a dito dal Procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, che ha ravvisato nelle intercettazioni catturate dal trojan gli estremi di un comportamento che va molto al di là della censura e che, con ogni probabilità, potrà anche sconfinare nella radiazione dall’ordine giudiziario. La gravità delle accuse formulate da Salvi lascia intravedere, oltre le rovine, anche una Norimberga: forse ci sarà anche un processo al malcostume, a una ideologia del potere giudiziario esercitata beffardamente in nome dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. Comunque non sarà una Norimberga facile. Già si sente il tambureggiare lontano delle controffensive e per averne un’idea vale la pena ricordare che Palamara non solo comincia col ricusare Piercamillo Davigo, membro della “disciplinare” e principe del giustizialismo estremo, ma chiama a testimoniare oltre centotrenta colleghi, appartenenti ala sua e alle altre correnti, per dimostrare che così facevan tutti. Mentre Ferri chiama a testimoniare proprio Salvi, ricordando che anche lui, il Procuratore generale della Cassazione, ha incontrato il reprobo Lotti, indagato dalla procura di Roma per l’affare Consip. Se tutti incontravano tutti o si arriva a un armistizio, a una indulgenza plenaria, o sarà una guerra di logoramento lunga e senza fine. Chi troverà scampo?

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Nessuno è in grado di approntare una risposta. Ma basta la descrizione degli effetti collaterali provocati dallo scandalo Palamara per capire le ragioni che hanno spinto quasi tutte le procure a frenare i furori giustizialisti del trojan, a gettare acqua sul fuoco delle fregole manettare del ministro Bonafede. “Ni muy atràs ni muy adelante”, raccomandavano in piena controriforma i padri inquisitori del Sant’Uffizio spagnolo: né troppo avanti né troppo indietro. E per paura che dai fuochi di artificio di altre inchieste possano sprigionarsi incendi che nessuno sarà in grado di domare, meglio procedere con i piedi di piombo, meglio raffreddare gli entusiasmi, meglio una intercettazione in meno che una devastazione in più.

 

La controprova sta in un dato di fatto. Anche se non sono mancate le occasioni e anche se la politica non smette di fornire spunti per aprire un fascicolo e inviare un avviso di garanzia, molti dei trojan messi in circuito dal fervido Bonafede, sono rimasti nei cassetti della polizia giudiziaria. I capi delle procure, ai quali non manca né il fiuto né il buon senso, hanno ammansito il mostro.

 

Sì, ogni tanto lo tirano fuori. Ma per incastrare quattro picciotti di mafia, o quattro boss in disarmo; per dare la caccia al fantasma di Matteo Messina Denaro o per stanare un fanatico dell’Isis che si è nascosto in Puglia, o per incastrare una banda di tangentari imboscati in qualche ufficio di provincia. Ma la stagione rigogliosa “alla Palamara” – con i titoloni per mesi sulle prime pagine dei giornali, e con la trepidazione che di colpo ha fatto tremare deputati e senatori, peones e leader di partito, cronisti giudiziari e vip dello spettacolo, il palazzo del Csm e altri cento palazzi di giustizia – quella stagione no, sembra conclusa. O sospesa.


Palamara era una pietra incuneata tra l’ipocrisia e la realtà. Il trojan l’ha sollevata e ha mostrato un mondo da brividi 


Molto dipenderà da come saranno sciolti i nodi che il debutto del trojan ha messo in evidenza. Nel tritacarne delle intercettazioni disposte dalla procura di Perugia, sono finiti, come si ricorderà, anche gli incontri che Palamara – ex pm romano, leader della corrente di Unicost, padre padrone per anni dell’Associazione magistrati e, come si diceva, uomo forte del Csm – teneva all’hotel Champagne di Roma, per decidere nomine e promozioni, per contrattare con gli esponenti di altre correnti, primo fra tutti Cosimo Ferri, figura storica di Magistratura Indipendente, gli incarichi più funzionali alla propria rete di potere. Ma si è dato il caso che Cosimo Ferri e Luca Lotti, anch’egli presente la notte tra l’8 e il 9 maggio 2019 nella hall dell’hotel Champagne, fossero dei parlamentari – uno di Italia Viva, l’altro del Pd – che in base alle garanzie previste dalla Costituzione, non potevano e non dovevano essere intercettati. I pm di Perugia, Gemma Milano e Mario Formisano, avevano avvertito gli agenti di polizia giudiziaria incaricati di manovrare il trojan ma – come fu e come non fu – l’ex ufficiale del Gico, Gerardo Mastrodomenico lasciò il dispositivo aperto. Con la conseguenza, non da poco, che per utilizzare i brogliacci di quelle non commendevoli conversazioni i membri della commissione disciplinare del Csm, chiamati a sanzionare i comportamenti deontologici dei magistrati trascinati in giudizio dal Procuratore della Cassazione – e dunque anche di Ferri, magistrato in aspettativa – saranno costretti a chiedere l’autorizzazione a procedere. Che farà la Camera dei Deputati, la concederà o no?

 

Da Tangentopoli in poi, il potere politico ha opposto all’azione della magistratura, spesso marcatamente invasiva, una sudditanza disarmata e disarmante. A volte per paura, a volte per un irresistibile cedimento a un populismo giudiziario, come quello del ministro Bonafede, che lentamente ha finito per corrodere i principi fondamentali dello stato di diritto. Se l’assemblea di Montecitorio dirà no, il potenziale esplosivo del trojan si ridimensionerà parecchio: resterà uno strumento utile per colpire mafiosi e terroristi, trafficanti di droga e pirati della finanza, corrotti e corruttori comunque lontani dal grande palcoscenico della politica. Ma se la Camera dei Deputati alzerà il disco verde, si spalancheranno per il trojan e per i cosiddetti magistrati coraggiosi gli orizzonti larghi dell’uso e dell’abuso. Chi potrà mai impedire a uno di quei pubblici ministeri che in passato hanno tentato persino l’assalto a Palazzo Chigi o al Palazzo del Quirinale di attirare nella trappola delle intercettazioni un uomo di governo o un uomo delle istituzioni, di sfregiarlo o di mascariarlo o di impiccarlo al cappio del disonore? Altro che Palamara. Altro che terremoto. Scoppieranno nuovi scandali, esploderanno altri sistemi, ci troveremo nel mezzo di altra cenere e e altro fango. Il trojan prima ci farà divertire con lo stupore, col gossip da portineria, con gli accostamenti piccanti, col voyeurismo pruriginoso. Poi ci seppellirà.

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