Mario Melazzini

Raccontare la malattia, misurarsi con il limite

Davide D'Alessandro

Silvia Bonino e Mario Melazzini, due storie, due incontri con la malattia (in attesa del miracolo della scienza), due modi diversi di presentarla

“Mille fili mi legano qui. Vivere la malattia”, di Silvia Bonino. Lo lessi d’un fiato. Grazie a un’intervista televisiva scoprii “Un medico, un malato, un uomo. Come la malattia che mi uccide mi ha insegnato a vivere”, di Mario Melazzini. Lo lessi d’un fiato. La prima, docente di psicologia a Torino; il secondo, medico oncologo a Pavia. Due storie identiche, due incontri con la malattia (in attesa del miracolo della scienza), eppure due modi diversi di presentarla, di raccontarla, forse di viverla. Bonino appare persino un po’ distaccata, professorale; Melazzini è passionale. Due libri che hanno la forza di cambiarti, perché ti costringono a misurarti con il limite. Nel concetto di autoefficacia, che Bonino apprende da Albert Bandura, c’è la scoperta di essere sempre qualcosa di diverso rispetto a poco prima. La malattia degenerativa ti impone, a ogni gradino che scendi, di trovare la giusta posizione e il giusto passo. Melazzini, nella malattia, trova sé stesso, l’occasione per toccare vette mai conosciute prima, anche se amava tanto la montagna. Dopo aver letto questi due libri, non ho parlato per ore, ma avevo una strana calma, una strana serenità.

Quando in una comunità scompare all’improvviso nella notte, colto da malore, accanto alla moglie e ai figli, un uomo di quarant’otto anni, professionista stimato, amico di tanti, viso comunque noto, la giostra dei nostri pensieri per un attimo si ferma e, spaventata, s’interroga, cerca spiegazioni, sperimenta l’indicibile, mastica amaro. Il giorno dopo riparte, deve ripartire. La speranza è che l’evento lasci una traccia, sempre buona per una meditazione più approfondita su chi siamo e come viviamo. L’idea che possa accadere a ciascuno di noi, fra qualche ora, fa capolino, ma la scacciamo via, è una voce che continuiamo a non voler ascoltare. Noi siamo i sopravvissuti, spiega Elias Canetti, e in un angolino buio della nostra coscienza, sentimento segreto e inconfessabile, si manifestano persino la superiorità e l’intoccabilità. Invece, quella voce è lì, a ricordarci che l’onnipotenza non ci appartiene. La morte è una voragine che si apre per chi resta, è un dolore immenso per una madre, un padre, un figlio, una sposa, un marito, una sorella, un amico. Eppure, la morte è anche il richiamo quotidiano che un’altra vita è possibile, ma non dopo: adesso, qui, in questo preciso istante.

Se sapessi che la mia partita si chiuderà fra qualche ora, farei e direi meno sciocchezze, darei ancora più baci, stringerei con un’intensità mai provata le persone più care, eleggerei ciò che è essenziale per la mia anima a bene supremo, certamente non scriverei ciò che leggete. Non ci sarebbe tempo. La clessidra mi direbbe che sta per scadere. Dovremmo tutti fissare la morte, sentirla accanto, viverci. Anzi, dovremmo chiederle di mutare la vita, di farle assumere un’altra dimensione. Non fuggirla, ma considerarla “come se” fosse sempre possibile. Però, con l’uomo, il “come se” non funziona. L’uomo vuole bruciare frettolosamente la candela che gli è stata accesa. Vuole correre, sgomitare, invidiare, affermare la propria forza, conquistare e mantenere il potere, esibire le ricchezze, accumularle insieme agli affanni, ai patemi d’animo, allo stress, dimenticando magari un figlio dentro l’auto e sotto il sole, per poi piangerlo disperatamente. Insieme alla propria miseria.