(LaPresse)

L'editoriale dell'elefantino

Trump e la promessa messianica che la ricchezza alla fine sarà per tutti

Giuliano Ferrara

Giudicare l’America First con il metro della scienza triste è una follia: quello del messia dei dazi è un gran pasticcio mistico-politico. Il discorso tariffario è stato indimenticabile, ma di economico non aveva nulla, con cifre sballate, forzature, malizia in ogni sillaba 

Pieno di ammirazione per il loro talento, non vorrei essere nei panni di Giavazzi, De Bortoli, Capone, Stagnaro né, bestemmia, del mio adorato Mario Draghi. Invidio di testa e di cuore, brutto sentimento ma adulatorio, lusinghiero, la loro sapienza e conoscenza. Invidio gli scrittori del Wall Street Journal, gli editorialisti, sottoscrivo ogni parola delle intemerate di Edward Luce sul Financial Times contro l’Amministrazione che fa strazio della democrazia americana, penso che per capire il mondo economico la Goldman Sachs vale forse più della Columbia e di Princeton messe insieme. Penso di sapere che lo scampanellio dello Stock Exchange, di Wall Street, è un segnale fatale per tutti, Francoforte, Milano, Londra, Parigi, Pechino o Beijing, per l’Australia, l’Asia, l’Africa e anche per pensionati, consumatori, lavoratori a reddito fisso, farmer, investitori americani eccetera. Mi piacciono von der Leyen, Macron, Starmer, Merz, Sánchez, Meloni, e ho un debole per i willing di ogni sorta, mi faccio piacere anche Scholz.

Nella Confederazione elvetica, Grigioni sopra tutto, vorrei vivere e morire placidamente in riva a un lago. E detesto lo sceriffo di Washington, lo paragono ai Malebranche di Dante, lo considero un Draghignazzo, un Cagnazzo, un Graffiacane e un Farfarello. Però questo barattiere che si fa demonio e custode di sé stesso, in nome del popolo americano, non può essere giudicato con il criterio contabile del dare e dell’avere, ragionando sull’Iva se sia un dazio o no, su inflazione e prezzi, su insoddisfazioni di settore, sulla tragedia delle nazioni investite dalla sua turbolenta passione per il dazio, che da quarant’anni è la sua parola preferita, e ora bum bum bum, ci siamo. Basta rinunciare al secondo tempo del derby Inter-Milan, ore 22 del 2 aprile in Italia, 4:00 pm a Washington, basta ascoltarlo nel silenzio del proprio studio dopo l’introduzione bandistica, basta penetrare nel suo ostico sorriso di Gran Cattivo che gioca col mondo come il mio gatto con i topi di campagna, basta concentrarsi sulla Cnn o sulla Fox e misurarlo nell’integralità ossessiva delle sue parole, delle sue moine, delle sue smorfie, della sua invincibile mala simpatia di bullo e di buffone. Giudicare l’America di nuovo grande di nuovo ricca e sopra tutto di nuovo prima, first, con il metro della scienza triste è una follia. 


Trump ha tenuto un discorso tariffario indimenticabile che di economico non aveva nulla, nullista nei dati, nelle cifre sballate, nelle forzature, nella malizia di ogni sillaba, una allocuzione dalle conseguenze previste, prevedibili e impreviste che sconvolge l’ordine internazionale, la dinamica del campo dell’amico e del nemico, che rovescia il tavolo dell’ex libero commercio, che colpisce o vuole colpire a morte la globalizzazione, che è marmoreo e insieme reversibile, esposto al negoziato e anche no, disposto alla guerra, e si vedrà chi ce l’ha più duro. Per essere un diavolo, è anche un Rubicante pazzo, magari perderà. Ma intanto è un diavolo e un messia, uno salvato da Dio per salvare te che lo guardi, e la sua materia mistica di immobiliarista esaltato, che si pensa come un Louis XIV di una Versailles superkitsch, è la politica, l’uomo comune del profondo americano, il consenso populista e nazionalista, la fascinazione psicologica delle masse indistinte, qualcosa di molto vicino alla persuasione occulta della vecchia sociologia. 


Il suo libro, il libro della sua religione, è l’Art of the deal, ma in versione biblica. I suoi dazi sono materia concreta e simbolo spirituale, sono un discorso al cittadino Joe, al lavoratore di Detroit e a ciò che rappresenta quando è chiamato sul palco del Giardino delle rose, alla Casa Bianca, per magnificare le tariffe che salvano e riscattano un’economia sana e in crescita che però deve essere percepita, e sarà percepita, come un american carnage. Nel primo mandato era un riformista-populista condizionato dall’ambiente, nel secondo è un rivoluzionario masaniellesco con una corte di tatuati mentali, un disruptor globale, uno che se ne fotte di comporre insieme una coalizione maggioritaria, fatto, già fatto, con l’aiuto delle minoranze che ora deporta dopo avergli rasato la testa e messo gli schiavettoni a piedi e mani, pronto ad accogliere con tutti gli onori gli afrikaneer bianchi del Sudafrica espropriati dai negri, uno che si inventa il nuovo common man americano, che non è della classe media, non è delle periferie né dei sobborghi, tantomeno delle grandi città o delle zone rurali o dei campus universitari, è un’astrazione per adesso vincente, un flatus vocis che esce dalla sua bocca di predestinato, di questo Calcabrina indiavolato, newyorchese dirazzato che fa piazza pulita della politica di establishment e del funzionamento di economia, stato di diritto e istituzioni in nome di una promessa messianica, la ricchezza che alla fine sarà per tutti, America First!

Attenti. Noi borghesi e cinesi e vietnamiti e thai e francesi e italiani e tedeschi e inglesi stiamo lì a contare le virgole del suo discorso e delle sue tabelline daziarie, a fare di lui un esattore fiscale che compromette borse e fondi pensione, consumi e benessere degli americani e dei loro molti dirimpettai commerciali, ma lui è già un passo avanti, fa un discorso semplice. Che affida il giorno dopo a una giovanissima Karoline Leavitt, che ha imparato bene la filastrocca, e che J. D. ripeterà a Roma tra una quindicina di giorni agli amici esterrefatti del trumpismo moderato, ah il trumpismo ragionevole, mediare con un messia. My fellow americans. Ora con i dazi raccogliamo un immenso tesoro che ci avevano sottratto con un commercio iniquo, li attiriamo nel nostro mercato che tira, poi se aumenteranno i prezzi con quei soldi caleremo le tasse, e deregolamentando tutto, e scavando in terra in cielo e in mare, e con l’energia, la geopolitica, la guerra la pace e le estorsioni internazionali diventeremo tutti ricchi. Siete d’accordo? Mi credete? Non saranno le tabelline degli economisti di Bruxelles a smentirlo. Tranne Putin, quel mascalzone, e la Cina, quella mascalzona, nessuno nel mondo ha una visione esaltata e matta come la sua, non certo i nostri bravi commissari europei. Che pasticcio mistico-politico. Altro che economia globale.  

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.