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L'analisi

Come travolgere il sud del mondo con una nuova onda di democrazia

Vittorio Emanuele Parsi

Il passato imperialista occidentale pesa su un modello che resta il migliore possibile. La diffusione della libertà e dei diritti nel mondo globale rimane ancora lenta: dobbiamo capire cosa non ha funzionato per accelerare i tempi

La democrazia è il sistema più “gentile” che sia mai stato inventato per governare gli uomini e le donne, il modo più rispettoso per esercitare il potere politico, per comandare ed essere obbediti, oltre che quello meglio in grado di dare voce ai singoli e diversi percorsi di vita e raccogliere il consenso intorno a decisioni che restano, irrimediabilmente e intrinsecamente, coercitive. Eppure, nonostante questo, la sua diffusione è lenta, si muove per “ondate e risacche”, negli ultimi due secoli e mezzo spesso determinate dalle guerre che, ciclicamente, hanno squassato il sistema internazionale (Huntington). Nell’articolo dedicato ieri al vertice virtuale dei capi di stato e di governo delle democrazie convocato da Joe Biden, Paola Peduzzi citava tra l’altro il dato, incoraggiante, diffuso nell’occasione da Freedom House, che attestava come la risacca democratica (ovvero la controffensiva dei dispotismi) sembri essere sul punto di esaurirsi. E non è da escludere che un esito positivo della guerra in Ucraina, ovvero la sconfitta della Russia di Putin e la fine dell’invasione, possano aprire una nuova stagione di democratizzazioni. Anche a essere ottimisti, però, una domanda occorre porsela: che cosa impedisce che un anelito universale come quello alla libertà si trasformi in quel sistema politico-istituzionale – la democrazia rappresentativa – che poi è il solo capace di tutelarla, sia pur con tutti i suoi limiti e mai in maniera definitiva (basti pensare ai fatti di Capitol Hill del 2021, a quelli di Brasilia di inizio anno e a quanto rischia di accadere in Israele).

 

Le ragioni sono molteplici, e talvolta scontate. In parte ci sono le difficoltà interne delle democrazie nel mantenere efficace e sviluppare la rappresentanza a fronte dei fenomeni di leaderizzazione e personalizzazione della politica e alla crisi dei soggetti intermedi di rappresentanza (i partiti) e di inclusione (i sindacati), difficoltà aumentate dalla trasformazione del sistema di comunicazione e delle modalità produttive (si pensi al recente caso francese). In parte noi tendiamo a sottovalutare sistematicamente la capacità e la volontà delle élite autoritarie a impiegare livelli crescenti e illimitati di repressione (dalla Siria all’Iran, dal Nicaragua al Venezuela, solo per citare qualche esempio recente). In parte ancora ci sono le interferenze esterne, che possono non solo impedire l’avvio di un processo di democratizzazione, cambiando l’inerzia degli eventi domestici (ancora una volta il caso della guerra civile siriana), ma anche tentare di bloccare processi di democratizzazione in corso o di impedirne il consolidamento (si pensi alle due invasioni russe dell’Ucraina nel 2014 e nel 2022-23).

 

Accanto a queste spiegazioni occorre però avanzarne un’altra, a mio avviso costantemente sottovalutata, che risulta essere forse quella oggi più importante, se solo consideriamo che la diffusione e il radicamento della democrazia nel cosiddetto global south è attualmente il campo di battaglia decisivo affinché i sistemi democratici continuino a mantenere (e rafforzino, evolvendola) la propria egemonia politica e culturale sul mondo postbellico, assumendo che il mantenimento della supremazia militare ed economica rappresenti la parte “facile” della lotta che ha il suo epicentro in Ucraina. Qui giocano due fattori avversi. Da un lato c’è l’ovvia constatazione che molti dei paesi del sud globale sono retti da dispotismi, governati da élite autocratiche, le quali non condividono certo con le democrazie i principi cui esse si richiamano: neppure quando fanno affari con esse o quando sono protette da esse (si pensi al rapporto tradizionale tra la Francia e molte delle sue ex colonie). Dall’altro c’è il trascinamento delle memorie coloniali di molti di questi popoli che – per decenni o, più spesso, per secoli – sono stati depredati da paesi che oggi sono democrazie compiute, ma che allora non lo erano per nulla o, quand’anche lo erano rispetto alla popolazione metropolitana (i bianchi) non lo erano affatto rispetto a quella autoctona delle colonie (i non bianchi). Quelle memorie contano, per il dirottamento rispetto agli originali possibili sentieri di sviluppo sociale, economico, politico che imperialismo e colonizzazione occidentale hanno brutalmente causato. E il fatto che oggi molte delle democrazie occidentali contemporanee coincidano con gli antichi colonizzatori fornisce alle dispotiche élite locali un’arma formidabile. Perché proclamare la propria orgogliosa separatezza o alterità rispetto all’“occidente”, un tema che non può che scaldare i cuori dei loro sudditi, consente loro anche di accantonare la questione della democratizzazione fallita, delle libertà e dei diritti negati.

 

Semmai, l’idea di libertà che viene proposta assomiglia a quella che Benjamin Constant aveva definito “la libertà degli antichi” – ovvero l’indipendenza nazionale, la sovranità – invece di quella che aveva precisato come la “libertà dei moderni” – molto più simile alla nostra democrazia. Ovviamente è impossibile sviluppare la seconda senza la prima, ma altrettanto chiaramente vediamo come sia possibile per i detentori del potere assestarsi dopo il primo passaggio, procrastinando all’infinito il secondo, e così riuscendo a occultare la natura intimamente predatoria delle élite post-coloniali in molti dei paesi divenuti indipendenti con il processo di decolonizzazione: che in nulla, peraltro, risultano essere meno predatorie delle élite coloniali che le avevano precedute, perché entrambe comunque “accampate” sulle società che comandano, e intente esclusivamente a derubarle. La forza di questa narrazione – che ha oggettivi elementi fattuali di fondatezza, lo ribadisco, anche se poi viene piegata a conclusioni per nulla obbligatoriamente conseguenti – la osserviamo all’opera persino in democrazie come quella indiana. Al netto della possibile torsione cui il partito di Modi (e l’ideologia induista una volta trasformatasi in ideologia di stato da strumento di identificazione e lotta partitica che era) sta sottoponendo il regime democratico indiano, resta il fatto che per Delhi schierarsi apertamente con le democrazie e contro i dispotismi non risulta affatto una scelta facile o scontata. Come nel caso dell’invasione russa dell’Ucraina sostenuta dalla Cina e contrastata da un fronte guidato da paesi che sono sì democratici, ma anche occidentali e, in quanto tali, eredi delle antiche potenze coloniali.

 

Certo anche la Russia ha un passato (e un presente!) coloniale. Ma la stagione sovietica del suo imperialismo – e la lotta condotta contro l’occidente durante la Guerra Fredda con l’oggettivo sostegno alle lotte anticoloniali – gioca a favore di Putin (e del suo rocambolesco tentativo di arruolare sotto le sue tetre bandiere l’intera grandeur russa, pre e post-sovietica). E, in maniera complementare, rende difficile il compito di chi invita a distinguere tra il “vecchio occidente imperialista” e il “nuovo occidente democratico”. Una differenziazione fondamentale, se vogliamo che la democrazia sia in grado di uscire dal suo ridotto atlantico, al di là delle propaggini latinoamericane e indopacifiche, e sia in grado di conoscere una quarta ondata di diffusione. E non occorre aggiungere che tutto quello che propugna l’immagine di una fortezza assediata da barbariche ondate di migrazioni provenienti dal Mediterraneo, terrorizzata dalla “sostituzione etnica” (sic) ed egoisticamente chiusa verso i popoli del sud del mondo, ci porta verso la sconfitta e non certo verso la vittoria.

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