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La crescita cinese rallenta, e c’entra la guerra e il Partito

Giorgio Arfaras

L’occidente ha isolato la Russia e può fare lo stesso il gigante asiatico. Ecco i difetti del sistema

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La crescita cinese sta rallentando. La domanda interna sia di beni prodotti in Cina sia di beni importati cresce poco per effetto delle misure stringenti contro il  Covid, mentre le esportazioni cinesi crescono. Il risultato è una bilancia commerciale in forte avanzo, che va vista come un segno della debolezza, perché registra una crescita cinese inferiore a quella degli altri paesi. L’economia russa, invece,  si sta contraendo. Dopo un primo periodo di tenuta, legato agli effetti modesti delle sanzioni agli esordi e alla vendita di gas e petrolio a prezzi crescenti, si registrano dei pesanti effetti negativi legati alle sanzioni non più agli esordi, e della vendita a “singhiozzo” del gas all’Europa e del petrolio a sconto fuori dall’Europa.
 
I giganti dell’autocrazia non sono così su un piano di parità. A dire il vero, non lo sono mai stati, e sempre a ruoli invertiti. Fino agli anni Settanta la Cina era il “cugino povero” dell’Unione sovietica. Dagli anni Novanta, grazie al suo notevole sviluppo, legato all’ingresso nel commercio internazionale e al trasferimento della tecnologia occidentale, in presenza di una urbanizzazione che ha coinvolto i contadini a centinaia di milioni, la Cina è diventata il “cugino ricco” della Russia. Negli anni Trenta, ai tempi della sua industrializzazione, l’Unione sovietica non fu accolta nel commercio internazionale, e neppure ci fu un trasferimento di tecnologie occidentali, probabilmente perché, a differenza di quanto accaduto poi con la Cina, a quei tempi si temeva la fattibilità del progetto di sovversione universale del proletariato.
 
La Russia non dispone di un apparato industriale avanzato ed è ormai priva, a seguito delle sanzioni, del supporto delle tecnologie occidentali, intanto che dipende per le sue entrate fiscali soprattutto dalla vendita di materie prime all’Europa. Le esportazioni di materie prime verso l’Europa nei prossimi anni finiranno perché saranno tagliate molto, se non del tutto, sia per l’agire nel lungo periodo della “transizione ecologica”. La Cina ha un apparato industriale avanzato, e inizia a mostrare, dopo avere registrato per anni una spinta verso la privatizzazione, un controllo statale crescente. Allo stesso tempo, i motori dello sviluppo cinese o non sono dinamici come in passato, come gli immobili e le infrastrutture, o lo sono meno, come le esportazioni. Da notare che i paesi filoccidentali (Europa, Stati Uniti, Giappone, Corea del sud, Australia, Nuova Zelanda) commerciano fra loro diverse volte più di quanto non commercino con la Cina. Dunque l’importanza commerciale della Cina è elevata, ma non è tale da renderla indispensabile.
 
L’occidente ha isolato la Russia per l’aggressione all’Ucraina, e  la Russia  si sta rivolgendo alla Cina per avere supporto, ma, così facendo, non potrà che diventare, per l’enorme disparità di potenza in campo economico, il suo junior partner. La Cina può, infatti, diventare il maggiore esportatore dei beni industriali in Russia, il maggiore importatore delle materie prime russe, e il maggior partner finanziario, sia accogliendo le banche russe nel proprio sistema, sia con lo yuan che diventa la moneta di transazione e di riserva fra i due giganti dell’autocrazia. Detto in maniera colorita, si avrebbe una sorta di autarchia delle autocrazie. Se le cose andassero così, la Russia, per effetto dell’aggressione all’Ucraina, avrebbe perso il treno occidentale, mentre sarebbe scivolata nelle mani della maggiore potenza orientale. Con buona pace della sua aquila bicefala, che guarda sia a occidente sia a oriente, come Bisanzio.
 
Quando si ragiona del futuro della Russia, non si può non cercare di capire come è messo il gigante asiatico in campo economico. Da un lato, abbiamo diverse imprese cinesi giganti che vogliono ritirarsi dalla Borsa degli Stati Uniti, mentre abbiamo una riduzione contenuta degli investimenti finanziari dell’occidente in Cina. Queste due vicende segnalano un regresso cinese dalla globalizzazione, o meglio dalla globalizzazione “estrema”, quella in cui tutti seguono le stesse regole e investono ovunque perché egualmente garantiti. Le imprese cinesi che si ritirano da Wall Street lo fanno perché la quotazione negli Stati Uniti richiede una trasparenza dei loro bilanci che esse non vogliono mostrare. Lo scetticismo sulla tenuta di alcuni comparti dell’economia cinese, come l’immobiliare e quello dei giganti della tecnologia, è all’origine della freddezza occidentale nel campo degli investimenti in obbligazioni e azioni  cinesi. Il primo perché è finito schiacciato da un ciclo gigantesco di investimenti finanziato a debito. Il secondo perché vi è stata una pesante ingerenza statale nella conduzione delle imprese.
 
Dall’altro, abbiamo dei progetti di sviluppo industriale difficili da portare avanti. Come la Germania ha una notevole forza economica anche grazie al sistema delle piccole e medie imprese, il Mittelstand, imprese che sono innovative, che sviluppano prodotti di qualità, e che pagano salari elevati, così la Cina vorrebbe arrivare ad avere lo stesso. Sono sorti così i fondi di investimento finanziati e qualche volta gestiti dalle autorità locali con lo scopo di aiutare a fondare e spingere lo sviluppo di queste nuove imprese con l’ambizione che siano sofisticate. Queste imprese, simili nelle intenzioni a quelle tedesche, sarebbero un veicolo per un’ulteriore modernizzazione. Non è facile portare avanti con successo questo progetto. La prima ragione è la concentrazione. Tanto più un’area è sviluppata di suo, tanto più è facile lo sviluppo delle nuove imprese. Il motivo è la presenza in loco delle competenze. In questo caso, avremo un’ulteriore polarizzazione dello sviluppo cinese, già di suo squilibrato. La seconda ragione è la commistione con il conflitto di interesse che può sorgere fra i funzionari locali e le imprese di cui decidono il finanziamento. La terza ragione è la funzione finale di queste imprese piccole e medie sofisticate. Se lo scopo fosse entrare nella catena produttiva delle grandi imprese a controllo statale per modernizzarle, esse finirebbero per compiacere queste ultime piuttosto che, come avverrebbe in libero mercato, i consumatori.
 
La difficoltà a  interpretare i segnali dell’economia cinese trae origine dall’allargamento, deciso dalla nuova strategia del partito unico al potere, del campo di intervento dello stato. Se quest’ultimo si limitasse a indicare e finanziare la direzione, in una sorta di Pnrr cinese, si avrebbero certi effetti, mentre se ne avrebbero altri in caso di intervento attivo. In campo macroeconomico il nodo da sciogliere è quello solito. Un’economia trainata anche dai consumi, e non più solo dagli investimenti e dalle esportazioni, se vuole funzionare, deve ridurre il rischio che corrono le famiglie, e che inibisce i loro consumi, perché incentiva il risparmio “precauzionale”. La spesa sanitaria e la spesa per istruzione in Cina è elevata. La mancanza di un sistema pensionistico diffuso carica le famiglie della spesa per mantenere le generazioni precedenti. Un sistema di Stato sociale più o meno sviluppato, che distribuisca il rischio comprimendo i costi della spesa delle famiglie dovrebbe essere la soluzione per avere una forte spinta verso i consumi. E’ da vedere quale sia la sua compatibilità con il sistema politico.

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