(Foto di Ansa) 

Dentro la guerra

La bellezza degli ucraini che resistono

Francesco d'Aloja

Le storie e i volti di chi combatte contro gli invasori russi, dall’Azovstal a Kyiv, sono la speranza di un’umanità che ha già vinto

Gli ultimi tre mesi sono stati rivelatori. Un periodo per me illuminante sul mondo, sull’umanità e soprattutto su me stessa. Non faccio fatica ad ammettere quanto sia stata labile la mia partecipazione ai fatti del mondo, quanto poco mi sia interessata alla produzione politica, intellettuale, artistica dell’ultimo decennio. Un distacco doloroso che mi trascina da tempo verso un’inesorabile deriva nichilista tutt’altro che piacevole, culminata con l’astratta sensazione di benessere, sì, benessere, provocata dai vari lockdown imposti dalla pandemia. Isolata dal mondo, io sto bene.


Tale premessa è d’obbligo per dare un senso all’improvviso cambiamento di rotta che questa guerra ha provocato nei miei pensieri. Perché, mi chiedo, quel che avviene in Ucraina mi smuove più di ogni altro accadimento? La risposta non è la guerra, fosse questo il “tema” di interesse, non avrei che da puntare il dito sull’atlante. Di guerre è pieno il mondo. La risposta è l’Ucraina. O meglio, gli ucraini. 


Un paese che non conosco (come non conosco la Siria, l’Afghanistan o lo Yemen, tanto per citare territori che sono teatro dello stesso orrore) e che sto imparando a conoscere, come molti di noi, attraverso la rappresentazione più orribile che l’umanità possa offrire di sé. Ma anche la più bella. Mi sto avvicinando al punto.


Un punto lontanissimo nel tempo e nello spazio eppure a noi, figli della classicità, connaturato: il potere, fondativo per la nostra civiltà, dell’epica. Un potere travolgente che legittima parole fino a ieri utilizzate a sproposito, non essendoci il contesto corretto in cui inserirle, che ora ritrovano il loro significato originale: eroe, valore, patria, onore. Termini in disuso, ammantati di retorica e ridicolo, ritrovano oggi la loro originaria dignità. E forse non è un caso: quelle terre sono abitate dai tempi di Troia, dal diluvio universale, e prima ancora. 
Gli ucraini combattenti hanno risvegliato un vocabolario antico, rafforzandolo però con elementi nuovi che producono uno straniamento, un sentimento misterioso che il tempo ci aiuterà a capire e che, in qualche misura si avvicina a ciò che disse il profetico Orwell: “Quel sentimento pernicioso, da cui è così difficile svincolarsi, che la guerra, nonostante tutto, è proprio una cosa gloriosa”.


L’elemento nuovo è la miscela singolare fra antico e moderno, le trincee e i droni, i cavalli di Frisia e i satelliti, le immagini a colori sovrapponibili a quelle in bianco e nero delle guerre del Novecento. Ma anche l’evidente squilibrio, nei due fronti opposti, a essere rappresentativi del loro tempo. Da un lato la retorica bugiarda e anchilosata dei russi, il loro stesso aspetto irrigidito e fuori moda, fuori tempo, fuori dal mondo. Dall’altro la forza della giovinezza, espressa in primo luogo da un presidente giovane e moderno, che conosce i mezzi della comunicazione, le arti affabulatorie messe al servizio di un palcoscenico immensamente più grande di quello che era abituato a calcare prima di diventare un capo di stato. 


Un personaggio, Zelensky, protagonista del più grande romanzo del primo ventennio del secolo. Bisogna riconoscere al suo governo, fra le altre cose, un talento drammaturgico degno dei grandi narratori, basti pensare alla conferenza stampa nella stazione della metro di Kyiv, o il discorso pronunciato l’8 maggio, alla vigilia delle celebrazioni della Giornata della vittoria in Russia, in un video in bianco e nero, dove lo si vede avanzare, Zelensky, solo, fra le rovine dei bombardamenti: “Il male è tornato”, è l’incipit del suo discorso toccante. A scontrarsi non sono due nazioni, ma due epoche, due mondi. Sono i dinosauri contro i ghepardi. 


La guerra dei contrasti è sotto i nostri occhi ventiquattr’ore al giorno. Un flusso di immagini incessante, un fiume di parole intelligenti, idiote, vere, false. 
Il ragazzo che inneggia alla patria, che non teme la morte ma anzi la invoca, è lo stesso che pubblica i video su TikTok, causando un’oscillazione schizoide tra alto e basso, sublime e osceno. E mi chiedo cosa ci resterà di tutto questo, come verrà raccontata questa guerra già massimamente raccontata?


La si racconta tanto, troppo. Allo scadere del terzo mese la quantità di immagini registrata dai nostri occhi non ha paragoni con nessun altro conflitto contemporaneo. Un tema serio trattato spesso da persone poco serie. Se ne sviscerano i retroscena, le colpe, i meriti, senza capire che questa guerra racchiude un segreto, a cominciare dall’imprevedibile resistenza da parte di una nazione che si diceva “inesistente”. Si abusa di termini e considerazioni e sempre ci si premura di precisare (che assurdità) chi sia l’aggredito e chi l’aggressore, per smentire tale assunto tre battute dopo. Eppure, in questa infinita valanga di opinioni non ho ancora sentito parlare di un elemento, preponderante, quasi sfacciato, che mi ha colpito sin dai primi giorni: la bellezza.


Non mi riferisco all’estetica della guerra, tema interessantissimo che ha nutrito poeti, filosofi, letterati, pittori, registi, fotografi (cosa sarebbe l’arte senza la guerra?), poiché sappiamo che se non esiste la bellezza della guerra, può esserci bellezza nella guerra. Ce lo dice Gadda nel suo “Giornale di guerra e di prigionia”, Franz Marc nei suoi disegni dal fronte, Apollinaire nei suoi “Calligrammi”. Io parlo piuttosto della bellezza fisica, dei singoli individui.


Una bellezza che commuove, quella che vediamo sui volti emaciati dei resistenti dell’Azovstal, barbe lunghe e guance scavate, resi ancora più struggenti dalle immagini del prima e dopo che i social rilanciano a beneficio del nostro immaginario così vulnerabile. O quella, altrettanto formidabile, di donne e bambini (quanti ne ho visti di volti bellissimi in Moldavia, fra i rifugiati ucraini…), così esagerata talvolta da sembrare falsa. “E’ frutto della propaganda”. Tutto diventa potenziale frutto di propaganda. Dal soldato che si riprende con il suo cellulare mentre un uccellino viene a posarsi sulla sua spalla, anche lui bello come un attore, all’ufficiale trafitto da un raggio di sole nei sotterranei dell’acciaieria assediata, un modello di Vogue. Ma non si tratta di attori, come maliziosamente suggeriscono gli scettici ai quali tanta bellezza non può apparir vera (ma è proprio questa incongruenza a renderla intollerabile per gli uni e sublime per gli altri). 


Ai bei soldati si aggiungono i giovani (insisto su questo aspetto, poiché giovinezza è sinonimo di bellezza) sindaci delle città dai nomi difficili che abbiamo imparato a pronunciare, che ogni tanto appaiono sugli schermi dei nostri televisori. Il più clamoroso è il sindaco di Kyiv, Vitali Klitschko, un metro e novantotto, uno dei più apprezzati pesi massimi della storia del pugilato (basterebbe questo a infondere un senso di protezione) che se ne va in giro in mimetica a sostenere i soldati e contemporaneamente lancia appelli all’occidente, o il trentatreenne Ivan Fedorov, sindaco di Melitopol, sequestrato e torturato da un commando di russi, il cui aspetto farebbe pensare a un campione di atletica leggera. Poi c’è Oleksandra Matviichuk, avvocato trentottenne, consulente del Parlamento, bellissima. Protagonista del movimento democratico ucraino, sta raccogliendo prove e denunce sui crimini di guerra perpetrati dai russi da presentare al Tribunale dell’Aia. Il vicepremier Mykhailo Fedorov di anni ne ha trentuno e anche lui fa venire in mente una disciplina sportiva, non mi stupirebbe vederlo nuotare in una piscina olimpionica, invece ricopre l’importantissimo ministero della Trasformazione digitale (che in termini pratici significa modernità). E ancora, plotoni di civili volontari belli come mio figlio, modelle che imbracciano il fucile o si offrono come staffette… 


Un’invincibile carica di bellezza che assume un valore molto più profondo di quanto si immagini, poiché manifestandosi nel vertiginoso contrasto con l’estrema bruttezza della guerra, moltiplica la sua forza. Quella bellezza che si sprigiona da un viso umano quando è capace di rifiutarsi, di ribellarsi, di dire no: “L’accettazione illumina il volto, il rifiuto gli dona bellezza”, diceva René Char.


Traspare bellezza dalle storie che ci raccontano, dalla dignità con cui sopportano e resistono, dallo spirito che li unisce: mai come in guerra, il pronome “io”, così preponderante in tempo di pace, si riduce, si fa da parte, lasciando spazio al noi. Quei soldati, trasfigurati dalla resistenza (e forse dalla consapevolezza di essere andati oltre, di aver superato se stessi lottando per una causa più importante della loro stessa vita) ci stanno offrendo l’accesso a una dimensione che pareva scomparsa. Anche se non dovessero vincere, hanno già vinto. Ecco, forse è questo a commuovermi oltre ogni misura, a riaccendere una fiammella di considerazione sul genere umano, e a farmi accapponare la pelle quando sento pronunciare l’irrispettoso termine “guerra per procura”: come se chi la sta soffrendo e combattendo in prima persona non fosse che una marionetta priva di umanità e di personalità, una stupida pedina sulla scacchiera: mentre, al contrario, tutta questa umanità negata la sta rivendicando ed esprimendo al massimo grado grazie alla luce, alla bellezza, che emana dal suo corpo e dal suo viso. 

Le Christ n’est donc venu qu’en vain parmi les hommes
Si des fleuves de sang limitent les royaumes
Et même de l’Amour on sait la cruauté
C’est pourquoi faut au moins penser à la Beauté
Seule chose ici-bas qui jamais n’est mauvaise

(Guillaume Apollinaire - “Chant de l’honneur”)

Si deve, almeno, pensare alla bellezza.

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