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Attese, conte, liturgie. I paralleli tra la crisi inglese e l’elezione del Quirinale

Paola Peduzzi

Il premier britannico rischia il posto. Lì come qui, molti dicono: com’è possibile che sia tutto sospeso? Nessuno lo sa, s’attende, ma il tempo che passa, là a differenza che qui, non aiuta a chiarire idee, candidature e incastri: è dalla parte di Boris Johnson

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Paese che vai attesa che trovi: “Con chi stai tu?”, si chiedono i politici tra di loro, mentre fanno calcoli sulla sopravvivenza del governo, e sulla propria. Qui da noi fissiamo l’Aula parlamentare inebetiti, valutando piani a, b, c, studiando incastri tra Palazzo Chigi e il Quirinale, in fondo affascinati dalla liturgia dell’elezione del presidente e consapevoli del fatto che non tutto si può vedere e sapere, non è la trasparenza estremizzata il motore delle democrazie. Al di là della Manica lo spettacolo non è altrettanto ipnotizzante pur se drammatico, ma procede seguendo lo stesso schema di attese, di incontri, di patti, di ombre. Il premier, Boris Johnson, rischia il posto: non è la prima volta che gli succede, ma è la prima volta che la crisi sembra fuori controllo, stretta com’è tra faide personali e procedure. Lì come qui, molti dicono: ma con quel che sta accadendo fuori dal palazzo, una guerra imminente nel cuore dell’Europa, la crisi energetica, l’inflazione, l’incertezza pandemica, com’è possibile che sia tutto sospeso, in perenne e sfinente attesa? Lo ha chiesto il leader del Labour, il capo dell’opposizione Keir Starmer, assieme alle dimissioni di Johnson, ma poi prevale la solita domanda, “con chi stai tu?”, e cacciare il premier non è nelle possibilità, fino alle urne almeno, della sinistra: dev’essere il partito di governo, i Tory, a organizzare la congiura. Lo farà, non lo farà, soprattutto ce la farà? Chissà, s’attende.

 

L’attesa più evidente è quella per l’inchiesta sul partygate, lo scandalo delle tante feste a Downing Street in periodo di lockdown. Il premier si è scusato, ha cercato di giustificare le  bugie iniziali, ma ancora oggi  i media sono pieni di indiscrezioni che sostengono che Johnson pensa di non aver fatto nulla di male. Quel che non si può distruggere con le inchieste o i numeri lo si distrugge usando il fattore umano: comunque vada, la credibilità del premier è finita. Le indiscrezioni continue, sulle feste, sull’islamofobia del governo, persino sull’evacuazione di animali dall’Afghanistan autorizzata quando le persone, invece, da Kabul non riuscivano a scappare, sono il sintomo più evidente della credibilità declinante: non c’è controllo, ci sono soltanto nemici armati di buoni archivi di email e screenshot pronti a colpire. La confusione, nessuna disciplina, indicazioni non rispettate: in questo senso l’attesa inglese assomiglia ancora una volta  alla nostra. 

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Poi però ci sono le procedure: Sue Gray, che guida l’inchiesta, deve decidere quanto rendere pubblico del suo report. Ci sono gli avvocati al lavoro e c’è anche la polizia, che è piombata su quest’indagine in modo goffo dopo aver detto che non c’era nulla da guardare e che ora insiste perché certi dettagli non si sappiano mai. Intanto il Comitato 1922, il potentissimo gruppo che tutto decide nel Partito conservatore, vita e morte dei propri leader, ha scoperto che i sostenitori di Johnson non sono pochi e che hanno appena evitato che fosse introdotta una norma che permette mozioni di sfiducia più ravvicinate. L’occasione è ora, se non funziona bisognerà aspettare un altro anno, avvicinandosi troppo alla data elettorale. Sarà il momento giusto? Nessuno lo sa, s’attende, ma il tempo che passa, là a differenza che qui, non aiuta a chiarire idee, candidature e incastri: è dalla parte di Johnson. 

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