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Alla Cina del multilateralismo non importa nulla. Tre fatti

Giacinto della Cananea

Da Hong Kong all'Organizzazione mondiale del commercio: Pechino è sempre meno incline a rispettare gli obblighi derivanti dai trattati internazionali

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Nell’articolo di Wieselter sul Foglio del 2 agosto è stata discussa la tendenza degli Usa a ritirarsi da alcune parti dell’Asia. Tale tendenza va considerata criticamente alla luce della crescente influenza della Cina. Questa è tornata a essere la grande potenza, politica oltre che economica, che fu fino ad alcuni secoli fa, quando rinunciò al dominio dei mari, lasciandolo agli europei. E’ in sede politica, appunto, che essa ha messo in discussione il filone di pensiero, di cui l’esponente principale è stato l’esperto di diritto internazionale Abram Chayes, che è alla base della strategia occidentale volta a includere la Cina nei vari regimi globali. Nel saggio sulla ‘nuova sovranità’ del 1995, Chayes sostenne che, nel mondo sempre più interdipendente in cui viviamo, la sovranità degli stati, di ciascuno stato, per lo più non è esercitata unilateralmente, bensì all’interno dei vari regimi globali che si occupano, per esempio, della proliferazione nucleare, del cambiamento climatico, delle comunicazioni elettroniche e delle transazioni finanziarie. L’assunto è che tutti gli stati, anche i più potenti, hanno interesse a mantenere intatta la propria reputazione, rispettando gli impegni assunti con i trattati bilaterali e multilaterali. Di conseguenza, le procedure di monitoraggio e di arbitrato contano più di quanto si pensasse nel periodo precedente, quando si attribuiva primario rilievo alle sanzioni.

 

Tre vicende recenti mostrano, però, che il governo cinese è sempre meno incline sia a rispettare gli obblighi derivanti dai trattati internazionali, sia a prendere sul serio le procedure di arbitrato. La prima e la più nota concerne Hong Kong, su cui, in base all’accordo sino-britannico del 1984, la Cina avrebbe dovuto avviare l’esercizio della sovranità a partire dal 1997, rispettandone però per un cinquantennio la forma di governo democratica, nella logica ‘un paese, due sistemi’. In realtà, già nel 2014, la Cina ha modificato le regole concernenti l’elezione del capo del governo locale, ha negato il visto ai componenti della commissione parlamentare britannica che intendeva recarsi sul posto. A partire dal 2020, ha imposto norme sulla sicurezza nazionale che reprimono drasticamente il dissenso, ha impedito a vari oppositori di candidarsi.

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La seconda vicenda è meno nota da noi, ma non meno istruttiva. Essa riguarda la contesa tra la Cina, le Filippine e altri paesi asiatici su una parte del Mar cinese meridionale. Prima ancora che il Tribunale arbitrale istituito nel quadro della Convenzione dell’Onu sul diritto del mare (Unclos) si pronunciasse sulle richieste del governo filippino, il governo cinese ha dichiarato che non avrebbe partecipato all’arbitrato. Nel 2016, oltre ad accogliere la maggior parte di quelle richieste, affermando che le pretese cinesi eccedono quanto previsto dalla Convenzione, il lodo del tribunale ha ribadito il principio della libertà di navigazione nei mari aperti, che è accolto dalla maggior parte della comunità internazionale. Tuttavia, il governo cinese si è rifiutato di darvi attuazione, muovendo critiche procedurali e sostanziali che meritano di essere analizzate nel merito, a patto che non si metta in discussione la risoluzione delle dispute senza ricorrere alla forza.

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La terza vicenda concerne l’Organizzazione mondiale del commercio. I paesi che ne fanno parte hanno concordato di servirsi di procedure arbitrali per la risoluzione delle controversie. Non occorre, quindi, che diano ogni volta il proprio consenso al ricorso all’arbitrato. Nell’arco degli ultimi venti anni, la Cina ha attivato tali procedure in 22 casi, ma è stata chiamata in causa dagli altri stati membri ben 47 volte, cioè più del doppio, mentre l’Ue ha attivato 105 procedure ed è stata coinvolta in altre 88. Recentemente, è stata anche messa in dubbio la volontà del governo cinese di applicare le misure richieste dall’Omc, per esempio nella controversia instaurata dal Canada contro i limiti imposti dalla Cina all’importazione dell’olio di colza, tanto che è stata chiesto l’attivazione d’una nuova procedura.

 

L’analisi di queste vicende non suggerisce che si debba rinunciare alle procedure di monitoraggio e di arbitrato, tutt’altro, bensì che esse debbano essere utilizzate dal più ampio numero di stati. Per esempio, è rilevante e significativo che i principi del diritto del mare siano stati ribaditi dall’Asean, cioè l’associazione delle nazioni del Sud-est asiatico. Lo è anche che alla nuova iniziativa intrapresa dal governo canadese all’interno dell’Omc nei confronti della Cina partecipino l’Ue e Stati Uniti. Si dovrebbe fare altrettanto per quanto riguarda Hong Kong, ma, sebbene  molti membri della Nato abbiano contestato le misure repressive, non tutti l’hanno fatto. L’auspicio è che ora il governo italiano non faccia mancare il proprio sostegno alle iniziative prese dai propri partner presso l’Onu.
 

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