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Dove sei finita, America?

In base a che principio gli Stati Uniti hanno deciso di abbandonare il mondo?

Leon Wieseltier*

A vent’anni dall’Undici settembre e a dieci dall’inizio della carneficina siriana, l’intellettuale Leon Wieseltier riflette sulla leadership internazionale degli Stati Uniti, sulle lezioni sbagliate delle guerre di questo secolo e su come è cambiato lo sguardo occidentale sul mondo

Nella politica estera, gli sforzi riparatori della nuova Amministrazione di Joe Biden – l’Amministrazione post Caligola – rischiano di ridursi a questo: la posizione degli Stati Uniti nel mondo deve essere restaurata, ma non troppo. A volte, quando le persone parlano di tutti i danni cui Biden deve trovare un rimedio, consigliano di tornare al punto zero. Ma zero significa zero, e date le terrificanti condizioni economico-sociali che stiamo vivendo nessuno può proporre zero, ovvero un ritorno al 2016, come il vero obiettivo della propria agenda domestica. Nella politica economica e sociale dobbiamo essere ambiziosi, monumentali, trasformativi e  dobbiamo tradurre l’umanità che professiamo in leggi, programmi e istituzioni; dobbiamo assistere e persino salvare i milioni di deboli e feriti che ci sono tra di noi. 

  

Ma la parentesi rooseveltiana sarà confinata al nostro paese. Temo che all’estero non salveremo nessuno. Saremo degli interventisti umanitari soltanto a livello nazionale. Siamo determinati a “riparare le nostre alleanze”, com’è giusto fare – ma resta la grande domanda di cosa dovremmo farci, con queste alleanze. Siamo  determinati a “restaurare la leadership americana”, ma siamo anche perseguitati dallo spettro della  leadership americana, una grande leadership, una leadership con il potere e le regole, una leadership impopolare ma persuasiva. Abbiamo distorto la storia moderna della leadership americana trasformandola in una brutta storia, una storia sordida di sfruttamento e imperialismo, che è una calunnia che ci distruggerà nei conflitti futuri, e in quelli che sono già qui. Uno dei motivi per cui un ritorno al 2016 non basterà a riesumare la nostra politica estera è che il corso altalenante degli Stati Uniti, la sua scelta di abdicare il suo dominio globale e tirarsi indietro da azioni storiche decisive, non ha avuto inizio nel 2016. Abbiamo vissuto felicemente nella nostra versione rimpicciolita, in un mondo sempre più hobbesiano, che è l’anticamera degli Hitler, per una dozzina di anni. 

   

Quando gli storici analizzeranno la storia della politica estera americana in questo secolo, resteranno colpiti dalla continuità tra l’Amministrazione Obama e l’Amministrazione Trump, e molte persone (spero) saranno a disagio. Ci sono delle differenze, ovviamente. Obama vendeva la sua diffidenza diplomatica con garbo, come fa con tutto ciò che vende: un realismo emotivamente squisito, una tenera durezza, le politiche di Brent Scowcroft con le parole di Elie Wiesel. A differenza di Trump, Barack Obama non era animato da nulla di così grezzo e candidamente indifferente come l’America first, ma in pratica la durezza era la stessa. Nell’epoca obamiana nessun paese, nessun alleato, nessuna ribellione democratica o movimento dissidente, nessuna popolazione sterminata o aggredita da un genocidio ha potuto contare sull’America. (C’è un’altra differenza: Trump, un imbroglione che odiava essere imbrogliato, ci ha visto bene sulla Cina. La buona notizia è che Biden sembra essersene accorto). 

  

  

In un’intervista radiofonica nel 2016 David Remnick,  il direttore del New Yorker, una filiale dell’obamismo, ha detto a Ben Rhodes, ex consigliere di Obama, un’altra filiale, che Trump stava “chiedendo agli americani di accettare una visione tragica della politica estera e dei suoi limiti, e della vita stessa”. E ha aggiunto una frase indimenticabile: “A volte una catastrofe è quel che dobbiamo accettare”. Che sagacia! Ma quali catastrofi sono accettabili? Così tante atrocità e così poco tempo. Ci vuole una particolare autostima, e politica, per rimanere stoici davanti alla sofferenza altrui. 
Finché il nuovo apparato della politica estera di Biden resterà il vecchio apparato della politica estera di Obama  ci sono ragioni per temere che l’avversione al conflitto del loro vecchio capo, e la sua tolleranza verso la sofferenza altrui, continueranno  a coesistere in un caotico cosmopolitismo che si camuffa da   internazionalismo – un’epoca geniale, globale, e multi linguistica di buoni sentimenti ritrovati che continuerà a non offrire alcun argine ai disegni dei rivali e dei cattivi.

  

L’esempio e l’eccezionalismo. La passività verso la Siria è stata un fallimento morale e strategico di proporzioni gigantesche Abbiamo deciso di starcene con le mani in mano, sentendoci male ma restando a guardare 

  

Presto vedremo la misura in cui il ritorno della verità al governo riuscirà a rovesciare la politica estera isolazionista che si è sviluppata durante le recenti avventure del governo con la falsità. Ritornare da Trump a Obama non basterà. Conoscevano la verità nella Casa Bianca di Obama, conoscevano i fatti, ma questo non ha salvato nessuno. 

   

Chi guarda con favore alla posizione più debole dell’America nel mondo ama dire che l’America dovrebbe guidare con l’esempio, non con il potere. E’ una tesi astuta, nel senso che non impone alcun obbligo su di noi a parte quello di essere noi stessi, che è l’imperativo più pigro di tutti. Purtroppo per quelli che raccomandano questo lusso storico, questo torpore autocompiacente, la città sulla collina è attualmente in rovina. Chi al mondo vorrebbe trovarsi al posto nostro? Esagero, ovviamente: non siamo mai stati l’America di Weimar, abbiamo mandato a casa il nostro uomo forte arancione, e la nostra Costituzione ha tenuto; ma siamo miserabili. 

  

Anche ai bei tempi, non era utile, anzi era anche un po’ insultante, dire ai disperati della terra: siate come noi. L’unico modo in cui loro avrebbero potuto essere come noi è combattendo le proprie battaglie, nelle proprie comunità e con le proprie culture, per l’apertura delle loro società, idealmente aspettandosi che gli Stati Uniti sarebbero stati lì ad assisterli nella lotta per la loro particolare varietà del valore universale della libertà. C’era anche un altro modo in cui loro avrebbero potuto essere come noi: potevano venire qui e unire i loro gusti democratici ed economici ai nostri, che è il motivo per cui dovremmo considerare l’immigrazione come il modo definitivo per prendere sul serio la promessa dell’America. Ma anche sull’immigrazione abbiamo perso terreno anni fa e non lo abbiamo più recuperato.
  

Il caporale Catherine Broussard, cerca di comunicare con alcune ragazze afgane. 23 novembre 2010 a Boldoc, Afghanistan (Paula Bronstein / Getty Images) 
   

Come possiamo guidare con l’esempio se non siamo più eccezionali? Le persone che disprezzano l’idea dell’eccezionalismo americano insistono che il nostro esempio è la nostra unica pretesa alla guida globale.

 

L’implicazione è che finché non avremo giustizia a casa nostra, non potremo interessarci alla giustizia altrui. Allora tanto vale informare gli uiguri, i siriani, i rohingya e i meravigliosi cittadini di Hong Kong che dovranno aspettare per sempre. Il peggior esempio di questo ragionamento – ed è una delle frasi più scandalose che abbia mai letto – è stata l’osservazione di Simone Weil: finché la Francia avrà delle colonie non avrà alcuna autorità morale per combattere Hitler. Come se i comportamenti etici fossero riservati ai santi. Ma la lotta per la giustizia, in patria e all’estero, è sempre opera dei peccatori, la cui introspezione dovrebbe motivarli, non paralizzarli. No, c’è solo un modo per conquistare l’amicizia dei popoli oltre i nostri confini ed è aiutare i popoli oltre i nostri confini. Possiamo essere grandi nel mondo facendo del bene nel mondo. Se manca la grandezza o la bontà, noi (e non solo noi) siamo finiti. 

  

Nella migliore delle ipotesi, mi diranno che manco di ironia. Non sono a conoscenza del sangue degli innocenti che è stato versato nelle guerre giuste? E come la mettiamo con gli interventi militari finiti male? E le violazioni della sovranità, quel sacro principio vestfaliano? Da notare la spavalderia con cui uso  la parola “bene” – il bene di chi esattamente? Sono domande giuste e pertinenti. L’ingenuità è particolarmente ingiustificabile quando si parla di rapporti di potere. Gli idealisti hanno un obbligo particolare a considerare i costi e i benefici; altrimenti, come ammonisce l’adagio latino sul fare giustizia, il mondo può morire per la loro testardaggine. Inoltre, la retorica della virtù politica, dell’illuminismo, della liberazione e della democrazia è diventata tempo fa proprietà dei mostri della modernità; anche loro usano un linguaggio morale, e parole come “bene”. Ma non esistono i vestfaliani perfetti; di norma gli interessi degli stati hanno la meglio sull’inviolabilità degli stati, spesso per ragioni squallide.

  

C’è qualcosa di grottesco nel convivere con le trasgressioni immorali e amorali contro il sistema vestfaliano tracciando però una linea su quelle morali. Tutte queste complicazioni storiche e filosofiche mi convincono che dovremmo essere intellettualmente scrupolosi, non che dovremmo essere praticamente inermi. Le lezioni di relativismo, le ramanzine epistemologiche, la consistenza del pacifismo sono insignificanti di fronte alla sofferenza degli individui e dei popoli. La loro concretezza è quasi stupefacente. Ho letto un bellissimo saggio di Ignazio Silone, “La scelta dei compagni”, dove ho trovato questo: “E’ una questione di onore personale tenere fede a coloro che sono stati perseguitati per il loro amore per la libertà e la giustizia. Questa loro fede è una regola migliore di ogni programma o formula astratta. In questa epoca nostra, questo è il vero banco di prova”. Piuttosto grezzo, no? 

  

Ricorre un terribile anniversario. Sono passati dieci anni dalla prima disgrazia del Ventunesimo secolo. Mi sto riferendo alla catastrofe siriana. A parte i morti, gli stuprati, i torturati e gli esiliati, a parte i rifugiati e i sopravvissuti, le cose sembrano essersi stabilizzate per tutti gli altri e quindi sembra essere arrivato il momento per gli americani di fare ciò che sanno fare meglio: andare avanti. La ribellione democratica in Siria che ha avuto inizio a Dara’a nell’aprile del 2011 è stata sconfitta. E’ stata trasformata con successo in un conflitto etnico e religioso – la più brutta tra le guerre contemporanee – dal tiranno Bashar el Assad, che ha distrutto il suo paese e bombardato la sua gente e che, quando la sua debolezza è diventata palpabile, ha consegnato il suo stato agli iraniani e ai loro alleati di Hezbollah sotto la protezione della Russia, che si è affrettata a riempire il vuoto lasciato dall’America. 

  
Questo è stato un fallimento morale e strategico (guardate ancora alla mappa) di proporzioni gigantesche. E’ stato un genocidio, un’invasione e una conquista. Abbiamo deciso di starcene con le mani in mano, sentendoci male e continuando a guardare. E gli effetti della nostra passività non sono stati circoscritti ai confini di quella terra distrutta. Come conseguenza della mancata azione dell’occidente, che ha fatto in modo che gli assassini non incontrassero alcuna resistenza, nessuna forza che li potesse ostruire, è stata danneggiata la stabilità della Giordania e del Libano, la Turchia si è avviata su una brutta strada, la Russia è diventata una superpotenza a metà, l’Iran è diventato un egemone regionale, la posizione degli Stati Uniti nel mondo è sprofondata, e i fascisti stanno andando al potere in Europa. Non male.

   

Ci sono delle scene storiche che lasciano un’impronta indelebile sulla propria visione del mondo, sulle proprie aspettative e sugli obblighi. Quando ero piccolo ci sono state due scene primarie che hanno generato delle visioni antitetiche della storia e della politica. La prima era la Seconda guerra mondiale, la seconda era il Vietnam. Tutto ciò che devo sapere su una persona è la sua scena primaria, e il resto viene da sé. Per me c’è stato l’anteguerra e il dopoguerra. Le persone nate nel dopoguerra, e forgiate dagli effetti del potere americano nella lotta contro il fascismo in Europa e in Asia, e dalle testimonianze delle vittime del totalitarismo che consideravano i soldati americani dei salvatori, provavano ammirazione per il ruolo dell’America nel mondo ed esprimevano fiducia nel fatto che il potere americano potesse essere usato giustamente per la giustizia. Il dopoguerra non era a favore della guerra, ma era pronto a usare la forza americana per difendere certi valori e certi interessi – e ci è riuscito, con risultati buoni, cattivi e misti.

  

L’opposto di  America first non è America second. È America in full, senza paura del ritmo della storia, senza vergogna per l’entusiasmo che abbiamo per la democrazia e per i diritti umani, più grande dei suoi sbagli e dei suoi crimini, e a suo agio con l’uso del suo potere a difesa di se stessa e degli altri 

   

Il Vietnam, la scena primaria successiva, avrebbe dovuto distruggere quella fiducia, dato che il popolo contro la guerra deplorava le intenzioni e gli interventi americani, che vedeva come la proiezione cinica di un potere fine a se stesso, e anche al guadagno economico, e indistinguibile dall’imperialismo. Queste visioni diverse erano determinate in parte, ma non del tutto, da una ragione generazionale; venivano applicate non solo agli usi del potere militare ma più generalmente al livello dell’attivismo americano in giro per il mondo e al livello di preminenza americana nel mondo; e, se vi servono delle etichette, possono essere descritte come liberali e progressiste (penso che Biden sia un pro guerra che è diventato anti guerra). 

  

Oggi ci sono due scene primarie, da cui derivano due diverse visioni storiche e strategiche. La prima è l’Iraq, la seconda è la Siria. L’Iraq è il successore del Vietnam nella politica estera dei progressisti, la trasgressione da cui non ci si può riscattare, la parola oscena che ammutolisce ogni chiacchiera su un intervento americano. Come ha scritto Obama nel suo libro, “certo. Considero l’invasione (dell’Iraq) un errore strategico della stessa portata della guerra in Vietnam molti decenni prima”. L’Iraq è il motivo per cui non siamo andati in Siria. I poveri siriani hanno avuto la sfortuna di essere stati sterminati dopo il 2003. Il loro orrore è arrivato troppo tardi. Non sto dicendo, ovviamente, che l’oblio americano sarebbe stato preferibile, solo che le lezioni dell’Iraq non sono così ovvie come sembra credere ogni persona in ogni angolo di Washington. 

  

Soldati americani salgono su un elicottero da trasporto dopo aver portato rifornimenti all'avamposto di Korengal. 27/10/2008 Afghanistan (John Moore / Getty Images) 
  

Confesso subito che ho sostenuto la guerra in Iraq. Ho creduto, basandomi su ciò che io (e quasi tutti gli altri, con l’eccezione di Scott Ritter) consideravo un’opinione autorevole, che Saddam Hussein fosse in possesso di armi chimiche e biologiche, e visto che aveva già usato armi chimiche contro i curdi a Halabja nel 1988, la domanda sulla sua intenzione di utilizzare le armi di distruzione di massa non era teorica. Continuo a credere che l’utilizzo di queste armi e la minaccia del loro utilizzo costituiscano un’emergenza morale di scala globale. Quando mi sono reso conto che la premessa alla base dell’invasione era sbagliata, che il dittatore di Baghdad stava bluffando e così facendo andava incontro alla sua stessa distruzione, ho prontamente ritirato il mio appoggio, ma l’ho fatto in un modo che non ha fatto piacere al fronte anti guerra. Ho scritto che i leader statunitensi avevano trascinato il loro paese in guerra sulla base di uno sbaglio o una bugia, e che questo fosse un errore storico di grandi proporzioni – ma non mi sono pentito affatto per la caduta di Saddam e continuo a sperare, non senza prove, che il progresso democratico può essere ottenuto attraverso le aperture politiche che noi – forse non di diritto, ma nei fatti – stavamo creando e sostenendo. Spero di vedere nascere la democrazia in un paese arabo. Non sono rimasto sorpreso dallo scontro settario che è esploso dopo il crollo della dittatura, ma questo era un problema con cui l’Iraq, e altri paesi musulmani, avrebbero dovuto fare i conti prima o poi. Nelle società eterogenee la tirannia è, tra le altre cose, una misura transitoria, un modo per posticipare lo scontro inevitabile tra le difficoltà politiche della differenza e della disarmonia. 

  

La débâcle parziale in Iraq non mi ha lasciato con la convinzione che gli Stati Uniti sarebbero stati interdetti per sempre dagli interventi all’estero. Ci sono varie ragioni per questo. Innanzitutto, non esiste un singolo evento che spiega tutto, che racconta tutto ciò che dovremmo sapere. I paradigmi, le scene primarie e le analogie storiche non sono mai precise. Coloro che dimenticano la storia a volte sono condannati a ripeterla e a volte no; e coloro che ricordano la storia sapranno che non rallenta e non si ferma mai, non offre intervalli né ellissi, non c’è un interregno tra una crisi e l’altra in cui possiamo riflettere con calma e partecipare a delle conferenze prima di agire nuovamente. Se mai abbiamo avuto bisogno di prendere una pausa dalla storia, è stato nel 1945; ma gli eventi in Europa e altrove non lo hanno consentito. (L’isolazionismo degli anni Trenta, e la cinica lentezza iniziale con cui l’America ha difeso l’Inghilterra e le altre democrazie, è dovuta a un logoramento analogo, e al ricordo vivo di una guerra recente). Per me non ha senso dire che avremmo potuto porre fine al genocidio e all’occupazione della Siria se non fossimo intervenuti in Iraq. L’implacabilità della storia, e del male, è sempre sconveniente. Non siamo mai adeguatamente preparati, né intellettualmente né materialmente, ma eccola lì. Se fossimo dovuti intervenire, avremmo dovuto farlo in Sira. In molti, ovviamente, non erano d’accordo sul fatto che l’azione in Siria sarebbe stata giustificata. Obama non lo ha mai detto esplicitamente, ma il mio studio ossessivo della sua politica estera mi ha portato alla conclusione che lui fosse convinto che gli Stati Uniti non avessero alcun diritto di essere responsabili, sia direttamente sia indirettamente, di uno stravolgimento rilevante in un altro paese. (Tuttavia, in piena sintonia con la narrazione della politica estera americana del fronte anti guerra ci sono tre eccezioni a questo quietismo, tre paesi in cui il senso di colpa americano richiede un’azione americana: Vietnam, Cuba e Iran). 

  
Ci sono molte obiezioni storiche e filosofiche a questa idea. Bisogna comunque avere un dibattito. Gli obamiani, che negli anni di Trump hanno recitato la parte degli interventisti delusi, sostenevano che non potessimo fare nulla e poi nulla in Siria, e a un certo punto alcuni di loro se ne sono usciti con dei bizzarri algoritmi per risolvere la questione. Ma il punto importante è che abbiamo provato a copiare il modo loro, e abbiamo fallito. Noi non sappiamo quale sarebbe stato l’esito di un intervento americano in Siria, ma sappiamo qual è stato l’esito di un non intervento americano in Siria. Starsene con le mani in mano non è valsa la pena. Siamo stati disgustosi. Durante gli anni di Obama ho avuto l’onore di ricevere le visite di molti amici siriani che volevano parlare con me prima di andare a un appuntamento alla Casa Bianca. Consigliavo loro sempre la stessa cosa: spiegate ai consiglieri tutto ciò che sapete sulla situazione sul campo, parlate con eloquenza, fate appello agli ideali e agli interessi americani, e non aspettatevi nulla.

  

Se l’Iraq è una delle scene primarie, la Siria è l’altra. La Siria mette in guardia dai rischi della mancata azione. Ecco un’altra eresia: non ho alcun dubbio che i costi dell’azione americana in Iraq siano stati molto inferiori ai costi dell’inazione americana in Siria. Ovunque i governi e i popoli guardavano. I governi hanno imparato che possono fare qualunque cosa al loro popolo, e i popoli hanno imparato che l’America non farà molto, o nulla, per fermare il loro governo. Gli autocrati hanno anche imparato che potevano mandare le loro truppe oltre confine senza essere puniti, attraverso delle campagne aggressive con le quali conquistavano territorio e disgregavano stati, come ha fatto l’Iran in Siria e altrove, come ha fatto la Russia in Ucraina e come farà probabilmente la Cina a Taiwan e nel Mare cinese del sud. E’ vero che non abbiamo il potere di determinare le politiche degli altri paesi, ma abbiamo il potere di inibirli, complicarli e comprometterli. Abbiamo questo potere, se lo vogliamo. In ogni caso, sappiamo tutto dei limiti del potere americano: è il cliché della politica estera della nostra epoca, il nostro catechismo diplomatico. La domanda è: quali limiti possiamo accettare, e perché? Un limite non è un destino. Nella politica interna, certamente, ci viene detto giustamente di “fare le cose in grande”, e chissenefrega cosa dovrà sopportare l’economia. 

  

Ma l’invio di truppe americane in un paese straniero come si distingue dall’invio di truppe russe  all’estero? Le nostre azioni sono accettabili per il semplice fatto che sono nostre? Gli interventi militari non sono tutti uguali. A volte abbiamo abusato del nostro potere all’estero, e questo ha portato a rese dei conti politiche e culturali. Ciò che fa la differenza è, banalmente, lo scopo. Quando nella Prima guerra del golfo noi e i nostri alleati abbiamo espulso le truppe irachene dal Kuwait, ci stavamo battendo a difesa della legge internazionale e stavamo andando in soccorso a un paese invaso. Ma quando James Baker, rispondendo a una domanda sulle ragioni della guerra, ha detto: “Posti di lavoro, posti di lavoro, posti di lavoro”, ha leggermente intaccato la sua legittimità. 

   

C’è una tesi diffusa secondo cui la presenza americana non sia più vista con favore nel mondo musulmano dopo la guerra in Iraq. Non parlo e non leggo l’arabo, e le mie fonti sono giornalistiche e aneddotiche, ma mi interrogo. Molti musulmani avranno notato che la maggior parte delle campagne militari americane negli ultimi decenni è stata organizzata in parte o completamente per aiutare i musulmani – in Bosnia, in Kosovo, in Kuwait, in Afghanistan, in Libia e anche in Iraq. (La campagna libica, tuttavia, è il prototipo di come intervengono gli anti interventisti: l’obiettivo della missione diventa quasi immediatamente quello di porre fine alla missione, e abbiamo velocemente lasciato la Libia alla sua sorte). 

  

I siriani, certo, chiedevano disperatamente un intervento americano: e l’unica notte in dieci anni in cui ho visto i miei amici siriani contenti è stata la notte in cui Trump ha lanciato cinquantanove missili da crociera su una base aerea siriana come ritorsione per l’attacco con il gas nervino del regime siriano  sul villaggio di Khan Sheykhoun. Quando ho chiesto a H.R. McMaster, allora consigliere per la Sicurezza nazionale di Trump, se l’operazione americana rappresentasse un nuovo approccio o un tweet con i missili, gli ho fatto perdere la pazienza; ma, ahimè, era un tweet con i missili.

   

La gente che ha bisogno di assistenza solitamente accoglie con favore l’assistenza. Non chiede di vedere le credenziali ideologiche di chi arriva a salvarli. Il gioco delle credenziali è il passatempo ipocrita di quelli che non hanno bisogno di essere salvati – la sinistra americana che, ad esempio, non aveva nulla da offrire ai siriani e agli ucraini. Le riviste della sinistra americana hanno stabilito uno strano rituale intellettuale sulle emergenze dei diritti umani; le raccontano nei minimi dettagli ma poi criticano ogni tentativo di fare qualcosa per alleviarle. Venerano i dissidenti e i loro cuori si spezzano per le donne e i bambini, ma poi subentrano le proibizioni ideologiche. In questo pianeta di orrori non trovano ci sia nulla di più orribile di un soldato americano da qualche parte nel mondo. A molti americani fa comodo pensare che il resto del mondo ci considera ancora i brutti americani, perché il dibattito sull’interventismo muore sul nascere se non siamo più i benvenuti. 

  

Certamente non dovremmo approcciare nessuna zona geografica come conquistatori o occupatori, ma potrebbero esserci delle giustificazioni per una presenza militare americana che non hanno nulla a che fare con la conquista o l’occupazione. Dovremmo sempre rispettare le “dinamiche locali”, anche se potrebbero esserci delle occasioni nelle quali le “dinamiche locali” sono esattamente ciò che ci porta in un luogo lontano. Ma quando c’è un terremoto a Haiti o un incidente nucleare in Giappone o un’invasione in Ucraina o un genocidio nei Balcani o un’epidemia in Liberia i paesi vittime generalmente, e correttamente, si voltano verso di noi. Non siamo gli sbirri del mondo ma non ci giriamo dall’altra parte, almeno non sempre. Al momento non corriamo il rischio di fare troppo. Questa è stata un’epoca d’oro del troppo poco. Presto, se non recuperiamo il nostro ruolo storico, i vulnerabili del mondo, e i prudenti, inizieranno a guardare alla Cina. (E inizieranno a capire il vero significato delle condizionalità).

  

Durante gli anni di Obama, quando gli amici ritornavano dai viaggi all’estero e raccontavano le loro avventure, emergeva una trama costante. Ovunque andassero, in Europa, medio oriente, Asia del sud, Giappone o America latina, negli incontri con i funzionari, giornalisti, politici e banchieri, veniva posta la stessa domanda – una domanda che non aveva senso fare negli anni di Trump perché la risposta era autoevidente in modo ripugnante. La domanda che incuriosiva tutti era: dove sono gli americani?

  

“Parliamone faccia a faccia fuori da Kramer books davanti a una bevanda forte. La nostra ultima conversazione lì fu davvero memorabile”. Così ha scritto un caro amico non molto tempo fa, un uomo dotato di un grande intelletto e un’ampia cultura, un liberal di ferro. Aveva ragione: avevamo bisogno di una conversazione lunga e rigorosa. C’era bisogno di un caffè. Ci eravamo scambiati delle lettere sul tema dell’interventismo, sulla Siria e l’Iraq, su come dovesse essere la politica estera della nuova Amministrazione. Eravamo in disaccordo. Le nostre premesse morali e filosofiche erano le stesse, ma lui era scosso dalla fiducia testarda nel fatto che la forza americana potesse essere ancora utilizzata al servizio di queste premesse. “Non sei per nulla scosso dai danni che questa fiducia ha causato negli ultimi vent’anni?”. Credo che i danni non rappresentino un quadro completo, che i risultati siano stati decisamente misti; e in questa valle di lacrime non possiamo trascurare i risultati misti. 

“Noi e i siriani”, ha scritto il mio amico, senza alcuna compiacenza o trionfalismo, “stiamo pagando il prezzo per la follia dell’Iraq”. Di fatto, aveva ragione. E poi ha espresso un’altra obiezione, sempre più interessante. “Questo non è un disaccordo morale – ha spiegato – Non sono d’accordo con il riflesso di trasformare problemi politici in momenti di autorivelazione e autodefinizione morale – i cosiddetti momenti Malraux. Eccomi qui – sì sì, lo so, però a volte devi stare lì e fare silenzio”. Mi dichiaro colpevole di non essere stato in silenzio anche se non riesco a vedere perché i miei rivali non devono anche mettere a tacere le proprie certezze granitiche. Ma in questi dibattiti non mi dà affatto fastidio il rumore: la posta in gioco giustifica l’animosità. Nella sua lettera, il mio amico mi ha contestato per avere parlato non in modo liberale, ma in modo profetico.

Ho capito ciò che il mio amico intendeva con questa idea. André Malraux è stato tante cose, tra cui un mitomane che dagli anni Venti agli anni Quaranta è saltato da una crisi mondiale all’altra – Cina, Cambogia, Spagna, Francia nazista – con grande coraggio e narcisismo. E’ stato un intellettuale che sognava di essere un uomo d’azione, pronto a trasformare la sua partecipazione in questi cataclismi in un’epica autodescrittiva, e in romanzi. Se lui era un eroe, lo era soprattutto ai suoi occhi. Non molto tempo fa ho notato, in altri e in me stesso, la magniloquenza che spesso deriva dalle grandi discussioni morali, il modo in cui la partecipazione passionale a una guerra può essere confusa con un altro tipo di partecipazione storica, l’autostima che deriva da un coinvolgimento intenso. 
(Nel 2002, durante i dibattiti su al Qaida e l’Iraq, Christopher Hitchens, con cui sono stato fianco a fianco almeno su questi temi, ha dichiarato: “Vuoi essere un martire? Sono qui per aiutarti”. Ricordo di avere pensato che la sua considerazione di se stesso fosse oltre il limite.) Sentirsi come un profeta è un bel sentimento, specialmente in una terra in cui i profeti non pagano alcun prezzo. 

“Il liberalismo”, ha continuato il mio amico, “dovrebbe insegnare un’arte, o almeno vedere il bisogno dell’arte, di discernere quando è in ballo un tema morale fondamentale e quando non lo è”. Questo è il liberalismo inteso come mentalità, non come dottrina. Al bar gli avrei risposto che se lo scopo dell’intervento è fermare un genocidio, o fornire aiuto a una ribellione democratica, allora non si tratta di un tema morale fondamentale, non so cosa sia. Ma la sua accusa di malrauxismo è dura a morire. Il tema è importante. La politica estera non deve essere una forma di autoespressione. Come amano dire gli americani, non deve riguardare noi. Quando agiamo all’estero, non dobbiamo farlo per corroborare un’immagine lusinghiera di noi stessi, o per dare un’idea della nostra rettitudine. Lo facciamo in parte perché l’arte di governo dovrebbe essere un’attività profondamente empirica, basata su una valutazione sobria delle minacce e delle opportunità – su un rigore analitico senza il quale la promozione dei nostri valori e il perseguimento dei nostri interessi può diventare una minaccia per il mondo. Le illusioni degli statisti hanno ucciso milioni di persone nel mondo.

  

Tuttavia, l’avvertimento del mio amico contro il malrauxismo mi ha spinto verso un’altra conclusione, che lui troverà perversa visti i suoi appelli alla cautela. E’ questa: esistono circostanze nelle quali la nostra politica estera, se non deve basarsi su di noi, si deve basare sugli altri. Non intendo dire solo che la diplomazia e la strategia sono sempre reattive in una certa misura, nel senso che non abbiamo la capacità di determinare da soli, con i nostri tempi, basandoci sulle nostre preferenze e i nostri umori, se una crisi rappresenta, diciamo, una nuova guerra fredda. C’è sempre il fattore non insignificante del comportamento degli altri stati, dentro e al di fuori dei nostri confini. Quando dico che la nostra politica estera deve occuparsi degli altri, intendo dire qualcosa di più immediato, radicale, umanitario, e ampiamente praticato dagli uomini di governo: ovvero che ci sono dei momenti in cui dobbiamo agire sulla base dei bisogni degli altri. 

  

I bisogni degli altri: dobbiamo metterci d’accordo per essere distratti e motivati dalla loro sofferenza. Loro non possono essere trascurati per via delle nostre discussioni sull’umiltà e la hubris. Dobbiamo essere pronti a prendere una pausa, guardare oltre le pratiche ordinarie delle relazioni internazionali per offrire sostegno e salvezza. Chi non è cittadino di un certo paese a volte ha la legittima pretesa al suo potere. Per esempio, nel caso dei rifugiati, Kant riconosceva un “diritto globale” che lui chiamava “ospitalità universale”, e che è stato successivamente codificato nella Convenzione dei Rifugiati del 1951. “Non siamo interessati alla filantropia – ha scritto fermamente – ma al diritto”. In questa circostanza, i diritti degli stranieri ci impongono un obbligo. Le persone che vengono torturate, stuprate, gettate nei campi di concentramento e massacrate per cancellare la loro identità dalla faccia della terra – hanno un diritto di chiedere di essere assistiti e perfino liberati da noi? Forse no, ma non dovrebbe importare. Loro hanno diritto alla nostra simpatia, e la simpatia è cinica, vana, non ha alcun rapporto con la coscienza, a meno che uno non agisca sulla base di essa (esistono molti tipi e gradi di azioni: l’Iraq è difficilmente un modello). 

 

In base a quale principio li aiutiamo? E’ la domanda sbagliata. La domanda giusta è: in base a quale principio li abbandoniamo? In alcune circostanze gli interventi umanitari coincidono con i nostri interessi, e ovviamente veniamo ricompensati guadagnando l’amicizia delle persone che aiutiamo. Ma a volte dobbiamo usare il potere perché è la cosa giusta da fare. Non avevamo alcun interesse a intervenire contro il genocidio in Ruanda, a parte l’interesse di poterci guardare allo specchio. Ci sono dei tipi duri che si faranno beffe di tutte queste cose, le liquideranno come altruiste, e sentenzieranno che non funziona così il mondo. Ma non c’è nulla di male nell’altruismo e quando viene praticato da uno stato, da un grande stato, da una grande potenza, può anche modificare le norme internazionali. Certamente non è inconsistente con la durezza che verrà richiesta ai nostri leader dal Grande Gioco che ha già iniziato a definire questo secolo. 

 

E certamente non rappresenta tutta la politica estera, anche se il problema meno sentimentale dell’ordine internazionale richiederà anche un nuovo rafforzamento americano. L’opposto di  America first non è America second. E’ America in full, senza paura del ritmo della storia, senza vergogna per il suo entusiasmo per la democrazia e per i diritti umani, più grande dei suoi sbagli e dei suoi crimini, e a suo agio con l’uso del suo potere a difesa di se stessa e degli altri, ispirata dal ricordo della sua magnitudine, indifferente alle speculazioni sul suo declino. Solo noi possiamo buttarci giù e solo noi possiamo rialzare noi stessi e gli altri. “Siamo stati vittime della nostra fiducia nell’uomo – ha scritto Alexander Donat, un sopravvissuto dei ghetti e dei campi di concentramento – della nostra fiducia nel fatto che l’umanità avesse imposto dei limiti al degrado e alla persecuzione degli uomini”. 

 
Ci sono già troppe persone in troppi luoghi che sono state vittime della loro fiducia nell’America.

      

*Leon Wieseltier è tra i più influenti intellettuali progressisti d’America. Dal 1983 al 2014 è stato a capo della sezione culturale e letteraria della rivista New Republic. In quel ruolo ha rivoluzionato il giornalismo culturale americano, aprendo le pagine ai saggi, agli approfondimenti, alle idee delle menti più colte del paese. Nel 2014,  Wieseltier ha lasciato New Republic e ha scritto sull’Atlantic. Nel 2018, è stato accusato di molestie sessuali: stava lavorando a un magazine (Idea) con Lawrence Powell Jobs, che non è più stato fatto. Wieseltier è ripartito nel 2020 con una nuova rivista trimestrale che si chiama Liberties, di cui sono stati pubblicati quattro numeri (bellissimi).

  

Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul terzo numero della rivista americana Liberties.  

  
(Traduzione di Gregorio Sorgi)