(foto EPA)

UN HORROR INTERNAZIONALE A PUNTATE

Collasso afghano, episodio sette: i talebani sono entrati a Herat

Daniele Raineri

I guerriglieri integralisti entrano da vincitori nella città che i soldati italiani hanno lasciato soltanto il 12 luglio

Prologo. Nel 2001 il gruppo terroristico al Qaida attacca Manhattan e il Pentagono e uccide migliaia di persone. Al Qaida è ospite dei fanatici talebani in Afghanistan. Gli americani intervengono, disperdono i talebani e minacciano in privato il loro sponsor, il confinante Pakistan: “Se non cooperate, vi facciamo tornare all’età della pietra a suon di bombe”. Talebani e al Qaida non spariscono. La  strategia è aspettare e combattere una guerriglia di logoramento, prima o poi i governi occidentali si stancheranno dell’Afghanistan. “Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo”, dicono. I servizi del Pakistan aiutano sottobanco. Passano vent’anni. Prima il presidente repubblicano Trump e poi il democratico Biden ordinano il ritiro e annunciano che i talebani faranno la pace con il governo afghano. Ma non c’è nessuna pace. Nelle città, le donne temono il ritorno dei fanatici. 


  

La prima puntata di Collasso afghano la trovate qui.

Qui invece la seconda. 

Qui la terza.

Qui la quarta.

Qui la quinta.

E qui la sesta.


 

I guerriglieri talebani entrano nella città afghana di Herat da vincitori. Ormai a cadere non sono più soltanto i centri più piccoli, ma sono le grandi città strategiche, come appunto Herat nell’ovest e forse tra poco Kandahar nel sud. Due mesi fa, l’8 giugno, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini era volato a Herat in Afghanistan per la cerimonia dell’ammaina bandiera del contingente italiano, nell’enorme aeroporto militare accanto alla città – che per vent’anni è stato lo scalo delle operazioni militari in quella parte del paese, una delle più sicure. Un mese dopo, il 12 luglio, gli italiani hanno completato le operazioni di ritiro in largo anticipo sulla tabella di marcia e anche l’ultimo soldato italiano ha lasciato l’Afghanistan. Guerini quel giorno era passato davanti alla porta del comando, sulla quale campeggia un motto in inglese: “Winners never quit, quitters never win”, i vincitori non mollano mai, quelli che mollano non vincono mai. Potrebbe essere il motto dei talebani, che adesso hanno conquistato la zona e che in condizioni di inferiorità numerica si stanno riprendendo il paese con la violenza e stanno sfruttando in modo magistrale il ritiro incondizionato degli americani. Con un’applicazione feroce del concetto di pazienza strategica che in occidente nemmeno riusciamo a capire i fanatici hanno aspettato che i negoziati di pace carichi di condizioni e di verifiche cominciati con l’Amministrazione Trump quando ancora c’erano l’ex generale H. R. McMaster come consigliere per la Sicurezza nazionale e l’ex generale Jim Mattis come segretario alla Difesa diventassero un accordo di ritiro senza condizioni e unilaterale con la benevola approvazione di un altro clan dell’Amministrazione Trump, quello del segretario di Stato Mike Pompeo e dell’inviato speciale Zalmay Khalilzad (i generali nel frattempo erano stati cacciati). L’“accordo di ritiro” è poi stato approvato anche nelle virgole dall’Amministrazione Biden, che non ha fatto altro che allungarlo di quattro mesi. Forse Biden si aspettava che il disastro non arrivasse così repentino e si spalmasse su qualche anno invece che su qualche settimana, invece l’Afghanistan collassa. A Herat a cedere è la milizia di Ismail Khan, quindi una di quelle milizie che in teoria dovrebbero aiutare l’esercito afghano a resistere all’assedio dei fanatici. Nel discorso finale di Guerini, che ricordava i 53 militari italiani morti in Afghanistan, c’era un presagio: annunciava l’inizio della missione “Aquila” per portare in salvo i traduttori. Nessuno porta in salvo gli amici da un paese stabilizzato.

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)