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Fuori come sarà - 2021

Netanyahu si è mangiato il Likud

Il capo del Mossad e l'ambasciatore a Washington sono i pilastri della sua politica. L'attacco di Sa'ar e un nuovo voto che il primo ministro vede come una virgola tra un governo e l'altro

Micol Flammini

Il principale partito israeliano è stato inglobato dal suo premier che inizia anche a pensare alla sua successione, ma considera due nomi esterni al partito. I piani per il paese, l'esercito degli anti Bibi e una quarta elezione che tutti temono, tranne lui

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Il governo di unità nazionale tra il Likud di Benjamin Netanyahu e Blu e bianco di Benny Gantz scricchiolava da quando è nato. Era maggio, il premier, Bibi, e il vicepremier, Benny, nella foto con il presidente Rivlin sorridono, ma l’espressione è molto diversa. Netanyahu aveva l’aria irrequieta di chi aveva fretta, di chi aveva bisogno di quel governo per iniziare a governare. Gantz aveva un sorriso preoccupato che non l’ha mai abbandonato, fino alla fine definitiva del governo. La Knesset si è sciolta tra martedì e mercoledì a mezzanotte, e i due avevano la stessa identica espressione di maggio: Gantz preoccupatissimo, Netanyahu irrequieto, pronto a lanciarsi nella sua prossima campagna elettorale. Per lui il voto – Israele è arrivata alla quarta elezione in due anni – è un momento, una virgola tra una sua maggioranza e l’altra, perché la sua carriera va avanti con i suoi progetti, i suoi processi, i suoi accordi, la lunga lista delle cose da fare e il suo partito. Del Likud Netanyahu non è più soltanto il leader, è il padrone di casa. Il Likud è Netanyahu, si è lasciato travolgere e inglobare nella personalità del primo ministro che governa Israele dal 2009. Netanyahu nei suoi undici anni di governo quell’aria irrequieta non se l’è mai tolta dal viso e adesso sembra ancora più marcata, ora che, un’elezione dopo l’altra, il numero dei suoi sfidanti cresce. Il Likud per governare ha bisogno di alleanze e non c’è più nessuno dentro alla Knesset disposto a coalizzarsi con Netanyahu per un altro governo di unità nazionale. O meglio, non c’è più nessun grande partito disposto a farlo, visto che ormai, dopo l’esperimento di Gantz, è chiaro a tutti che il premier il suo posto non lo lascerà mai. Ha un problema di fiducia, lo sa, ma il voto per lui è una virgola, e per il momento il 23 marzo, data delle prossime elezioni, non pare preoccuparlo. 

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Il governo di unità nazionale tra il Likud di Benjamin Netanyahu e Blu e bianco di Benny Gantz scricchiolava da quando è nato. Era maggio, il premier, Bibi, e il vicepremier, Benny, nella foto con il presidente Rivlin sorridono, ma l’espressione è molto diversa. Netanyahu aveva l’aria irrequieta di chi aveva fretta, di chi aveva bisogno di quel governo per iniziare a governare. Gantz aveva un sorriso preoccupato che non l’ha mai abbandonato, fino alla fine definitiva del governo. La Knesset si è sciolta tra martedì e mercoledì a mezzanotte, e i due avevano la stessa identica espressione di maggio: Gantz preoccupatissimo, Netanyahu irrequieto, pronto a lanciarsi nella sua prossima campagna elettorale. Per lui il voto – Israele è arrivata alla quarta elezione in due anni – è un momento, una virgola tra una sua maggioranza e l’altra, perché la sua carriera va avanti con i suoi progetti, i suoi processi, i suoi accordi, la lunga lista delle cose da fare e il suo partito. Del Likud Netanyahu non è più soltanto il leader, è il padrone di casa. Il Likud è Netanyahu, si è lasciato travolgere e inglobare nella personalità del primo ministro che governa Israele dal 2009. Netanyahu nei suoi undici anni di governo quell’aria irrequieta non se l’è mai tolta dal viso e adesso sembra ancora più marcata, ora che, un’elezione dopo l’altra, il numero dei suoi sfidanti cresce. Il Likud per governare ha bisogno di alleanze e non c’è più nessuno dentro alla Knesset disposto a coalizzarsi con Netanyahu per un altro governo di unità nazionale. O meglio, non c’è più nessun grande partito disposto a farlo, visto che ormai, dopo l’esperimento di Gantz, è chiaro a tutti che il premier il suo posto non lo lascerà mai. Ha un problema di fiducia, lo sa, ma il voto per lui è una virgola, e per il momento il 23 marzo, data delle prossime elezioni, non pare preoccuparlo. 

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Non soltanto rimane ben saldo alla sua premiership che finora nessuno sfidante è mai riuscito a portargli via, ma anche dentro al suo partito non ha rivali. “Se non ci fosse Netanyahu, ci sarebbero più partiti disposti ad allearsi con noi” è un mantra che dentro al Likud hanno ripetuto spesso. Ma poi, al momento delle primarie, la maggioranza degli iscritti ha sempre votato per lui. E’ andata così anche l’ultima volta, quando a sfidarlo c’era Gideon Sa’ar e Bibi decise di sottoporsi al voto quasi come fosse una concessione. Che avrebbe vinto lo sapeva già. Vinse. Sa’ar, che aveva interpretato con troppo entusiasmo i borbottii di chi sosteneva che, senza Bibi, sarebbe stato più semplice risolvere lo stallo elettorale in Israele, aveva lanciato la sua candidatura con un rapidissimo tweet: “Sono pronto”. Troppo rapido, dentro al partito, ha rivinto Bibi. Alle elezioni, qualche mese dopo, ha rivinto Bibi. E Sa’ar è rimasto a rimuginare, confinato nell’ala più radicale del Likud, quella che, qualche mese più tardi, sarebbe rimasta più scontenta del patto stretto con Benny Gantz. Non che tutti dentro al Likud amino il premier, ma in molti si sono accorti che senza il premier non esisterebbero. Forse un partito senza Netanyahu sarebbe meno ingombrante, forse, si sono detti, senza Netanyahu sarebbe tutto più semplice, ma la verità, terribilmente amara per i tipi ambiziosi come Sa’ar di cui il Likud è pieno, è che senza Bibi il Likud non avrebbe lo stesso potere negoziale, la stessa appetibilità. 

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A mano a mano che il Likud diventava Netanyahu, venivano fuori gli anti Bibi. Moshe Kahlon, Moshe Yaalon, Naftali Bennet e Avigdor Lieberman. Bennet e Lieberman dopo aver lasciato il partito hanno fondato rispettivamente Yamina e Yisrael Beytenu, convinti di poter sfidare Netanyahu. Si sono ritrovati, invece, ad avversarlo in campagna elettorale ma a stringerci alleanze pur di contare nel governo. L’ultimo fuoriuscito dal Likud è proprio Gideon Sa’ar, l’avvocato di 53 anni aveva intuito gli scricchiolii del governo e l’8 dicembre aveva annunciato la formazione del suo Nuova speranza, un partito che, secondo i sondaggi, se si votasse adesso, otterrebbe circa 20 seggi. Un buon risultato che potrebbe portare alla formazione di una coalizione anti Bibi, ma i seggi di Bennet e di Lieberman non gli basterebbero a sfidare il premier, dovrebbe cercare l’appoggio anche degli altri arrabbiati, il giornalista Lapid, anche lui ex compagno di coalizione di Netanyahu, e Benny Gantz. Ne uscirebbe una formazione senza obiettivi politici, se non quello di mettere Netanyahu fuori dal governo e magari anche di fargli scontare la sua pena: è stato incriminato per corruzione. Sa’ar è già riuscito a portare con sé qualche membro del Likud, i più scontenti ma senza ambizioni di leadership e i più radicali, quelli che non approvano, per esempio, la timidezza di Netanyahu riguardo all’annessione unilaterale della Cisgiordania. Ma non si tratta di personalità importanti. Secondo Barak Ravid, giornalista di Axios che ogni settimana regala scoop sulla politica israeliana, Sa’ar adesso ha il suo momentum, deve saperlo usare, ma il suo peso ha un altro nome: Gadi Eisenkot. Se riuscirà a strappare a Netanyahu l'ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, avrà segnato un punto importante.

 

I sondaggi indicano che il Likud rimane il partito con le possibilità di vittoria più alte, Netanyahu non sembra curarsi di future coalizioni, nella sua testa ci sono altre questioni e la politica interna israeliana è un affare piccolo. Il premier è proiettato verso l’esterno, legge la politica interna come proiezione e strumento per risolvere tutto ciò che accade attorno a Israele, per le questioni di sicurezza. Proprio per questo, lo scorso anno, durante una chiacchierata con gli uomini del suo partito ha parlato della sua successione. Caso strano, nessuno poteva immaginare che il premier ci avesse pensato. Ma Netanyahu sorprese tutti i presenti, suoi alleati del Likud, dicendo che le uniche due persone che lui considera “capaci di guidare Israele sono Yossi Cohen e Ron Dermer”, il capo del Mossad e l’ambasciatore israeliano a Washington. Nessuno dei due è interno al partito e la notizia è suonata come uno sgarbo per i suoi compagni. 

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Netanyahu inizia ad avere in testa il disegno della sua successione e Cohen e Dermer sono i pilastri della sua politica, oltre a essere due uomini di fiducia. Bibi non vuole lasciare la sua eredità a un politico del Likud, vuole lasciarla o all’uomo che gestisce la campagna contro il regime iraniano, o all’uomo che cura la relazione indispensabile con gli Stati Uniti. Da Dermer dipenderà molto in questi mesi, quando al posto di Donald Trump arriverà Joe Biden. Ma tra i due è Cohen quello più interessato alla politica, quello più presente, è stato lui ad andare con il premier all’incontro segreto – raccontato alla stampa e secondo qualcuno non era un caso che dalla stampa fosse stato posto l’accento sulla presenza del capo del Mossad – con Mohammed bin Salman, il principe ereditario saudita. Cohen ha molta influenza su Netanyahu ed è uno dei pochi capi del Mossad che appare con così tanta frequenza in pubblico, che parla apertamente degli obiettivi e delle sfide dell’agenzia, che rilascia interviste. Si sta preparando, per il momento con l’Iran c’è ancora tanto da fare, ma la corsa per la successione potrebbe essere già iniziata, con il benestare dello stesso Netanyahu. 

 

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Il partito è muto, in tanti sono rimasti a tramare, in tanti sono rimasti leali. Ma come le elezioni sono una virgola tra un governo e l’altro, anche il partito sembra aver perso importanza per il premier: è stato svuotato, divorato dal suo leader, che mentre il governo veniva giù, mentre Gantz sconsolato lasciava ultimatum e l’esercito degli anti Bibi cresceva, era impegnato a stringere accordi di pace storici, in incontri segreti, a farsi vaccinare per primo in diretta tv contro il coronavirus. Manica della polo alzata, sempre con la stessa espressione e lo stesso sorriso irrequieto, quello nella prima foto di governo con Benny Gantz. 

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