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Altro che stop ai licenziamenti, ciò che serve è occuparsi di Anpal

Michele Faioli

Si prenda a modello quanto avviene all’estero, dove le integrazioni salariali sono accompagnate dalla mobilità professionale

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Nel Dopoguerra, con un decreto luogotenenziale (n. 523/1945), si decise di introdurre un divieto di licenziamento che durò, in una prima fase, da fine agosto a metà ottobre 1945 e, in una seconda fase, sino al 30 aprile 1946. Complessivamente il divieto di licenziamento, motivato dalla sconfitta bellica italiana e dalla distruzione (anche in senso letterale) di quasi tutto il sistema produttivo nazionale, durò circa otto mesi. La norma del 1945 era ben strutturata: oltre a fissare alcune eccezioni (il divieto non si applicava ai lavoratori che avessero rifiutato di accettare un’offerta congrua di lavoro e alle posizioni professionali coinvolte in crisi aziendali gestite dalla contrattazione collettiva), si determinava, da una parte, un meccanismo conciliativo-arbitrale per le eventuali controversie individuali e, dall’altra, un prototipo di politiche attive collegato al sostegno al reddito (costituzione del cosiddetto “ruolo dei lavoratori in aspettativa”).

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Nel Dopoguerra, con un decreto luogotenenziale (n. 523/1945), si decise di introdurre un divieto di licenziamento che durò, in una prima fase, da fine agosto a metà ottobre 1945 e, in una seconda fase, sino al 30 aprile 1946. Complessivamente il divieto di licenziamento, motivato dalla sconfitta bellica italiana e dalla distruzione (anche in senso letterale) di quasi tutto il sistema produttivo nazionale, durò circa otto mesi. La norma del 1945 era ben strutturata: oltre a fissare alcune eccezioni (il divieto non si applicava ai lavoratori che avessero rifiutato di accettare un’offerta congrua di lavoro e alle posizioni professionali coinvolte in crisi aziendali gestite dalla contrattazione collettiva), si determinava, da una parte, un meccanismo conciliativo-arbitrale per le eventuali controversie individuali e, dall’altra, un prototipo di politiche attive collegato al sostegno al reddito (costituzione del cosiddetto “ruolo dei lavoratori in aspettativa”).

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La comparazione tra quella fase tragica del nostro paese e quella attuale derivante dalla pandemia è complicata. Ci sono alcuni presupposti che appaiono simili (ad esempio, la crisi economica da pandemia, al pari di quella del Dopoguerra, è simmetrica, in quanto colpisce in egual modo tutti, con effetti che sono asimmetrici sui settori produttivi) e alcuni elementi che possiedono una rilevante differenza (la pandemia può non terminare mai, mentre la guerra può, se si vuole).

 

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Questo esercizio storico-giuridico ci può aiutare a capire con quanta prudenza si debba trattare la disciplina del divieto di licenziamento nella fase pandemica. Il legislatore, già da marzo 2020, ha introdotto il divieto di licenziamento. Si tratta di una sospensione pro tempore, sino a fine agosto, di un tipico potere datoriale (il datore di lavoro non può procedere né con il licenziamento collettivo né con il licenziamento individuale economico). Mediante il decreto “Agosto” si intende ulteriormente prorogare tale divieto sino all’autunno, con l’inserimento di un rafforzamento: il divieto ricomprenderebbe persino il regime del licenziamento disciplinare.

 

Alcuni si sono espressi con sfavore, ritenendo che il binomio integrazione salariali/divieto di licenziamento possa divenire, con il passare del tempo, una trappola per il lavoratore stesso (A. Garnero e M. Pagano), un “salasso [per i] contribuenti futuri” (T. Boeri) o un modo per “difendere il lavoro che c’è (anche quando diventa improduttivo), invece di promuovere quello che non c’è” (M. Ferrera); altri hanno cercato di orientare la discussione sui temi delle politiche attive, del welfare e di un necessario gradualismo del divieto (T. Nannicini e M. Bentivogli). Molte organizzazioni imprenditoriali sostengono che la norma sul divieto di licenziamento sia incompatibile con la libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 della Costituzione. Cgil, Cisl e Uil, con alcune differenti sfumature terminologiche e di posizione, insistono per il mantenimento del divieto, sollecitando una riflessione sul dramma socio-economico che l’autunno potrebbe portare con sé. L’Ocse rileva che, in Europa, le integrazioni salariali (eventualmente collegate alla limitazione del potere di licenziare), pur se efficaci nel breve periodo, non possono avere durate indefinibili. 

 

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La vicenda richiede molta prudenza. Fare niente non è forse la soluzione, ma fare male non è certamente la via da percorrere. Innanzitutto, in questo caso sarebbe (stato) auspicabile un tavolo “tra” (e non “con”) le parti sociali, in una sede istituzionale permanente, non ministeriale. Il Cnel (Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro) è il giusto luogo istituzionale di ascolto reciproco tra le parti, ma soprattutto, per volontà espressa del legislatore costituzionale, rappresenta un metodo di conciliazione della fisiologica conflittualità tra sindacato e imprenditori.

 

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Il governo non può (e non dovrebbe) essere arbitro di conflitti collegati a materie così complesse come quella del divieto di licenziamento in tempo di pandemia. Non si risolve tutto con una norma di legge, anche mal congegnata, che inibisce il potere di licenziare dando l’impressione di ascoltare prevalentemente le istanze di una delle due parti. Il governo si occupi, invece, di Anpal e delle politiche attive le quali, se ben funzionanti, sarebbero parte della soluzione del problema. Si attende ancora oggi, dal 2015 e dalle successive promesse del 2018/2019, la digitalizzazione dell’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro a livello nazionale: dove è il libretto elettronico del lavoratore? Dove è l’app promessa nel 2018? Come si coordinano i sistemi informativi regionali con l’Anpal? Ecco perché qualcuno, a livello internazionale, potrebbe persino pensare che in Italia il divieto di licenziamento è stato introdotto solo perché il governo riconosce di non avere fatto tutto ciò che avrebbe dovuto fare in materia di politiche attive e formazione professionale.

 

In secondo luogo, quella norma sul divieto di licenziamento, anche nella versione del decreto “Agosto”, è debole: il suo scopo nei mesi scorsi non è stato realizzato (si sa che tanti licenziamenti, più o meno camuffati da altro, sono stati effettuati) e, in caso di contenzioso sulla legittimità del licenziamento comunicato in tempo di pandemia, essa determinerebbe quasi certamente l’avvio di una verifica innanzi alla Corte costituzionale, la quale sarebbe chiamata a bilanciare il divieto di licenziamento con la libertà di cui all’art. 41 della Costituzione. Di qui si comprende perché in molti paesi europei il sistema speciale delle integrazioni Covid-19 non è stato esplicitamente accompagnato da tale divieto: le integrazioni salariali sono normalmente collegate al mantenimento dell’occupazione, nell’ambito di accordi aziendali, con l’obiettivo di promuovere anche forme di mobilità professionale da azienda ad azienda. Il problema vero, in altri termini, è la mancata realizzazione di un mercato del lavoro inteso come mercato delle professionalità. 

 

 

Il protocollo sulla sicurezza di marzo/aprile 2020 è un buon esempio di accordo “tra” le parti sociali, sostenuto da una norma di legge. Esso può diventare oggi, nella fase di rinnovo, lo strumento per negoziare e regolare anche il regime del divieto di licenziamento nell’ambito della continuità produttiva svolta in sicurezza. Le parti sociali più rappresentative, cioè quelle che siedono al Cnel, si riapproprino della funzione di determinare, con un protocollo nazionale, il regime del licenziamento in tempo di pandemia e invitino il governo a promuovere, mediante le risorse economiche anche europee, il collegamento tra politiche passive (ben ponderate) e politiche attive (più efficienti).

 

Fare niente, fare male, fare bene: chi può, scelga. 

 

Michele Faioli è docente all'Università Cattolica

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