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La dolce malerba. Perché i dialetti italiani dicono soprattutto qualcosa di noi

Michele Magno

Per qualcuno sono da gettare alle ortiche, per altri sono una fonte di creatività. Ma la guerra contro la lingua vernacolare non ha senso. Storia letteraria

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All’inizio del Cinquecento, nella ricerca di una lingua dotata dello stesso prestigio letterario e culturale del latino, il dotto veneziano Pietro Bembo, in un trattato noto come Prose della volgar lingua (1525), fissa l’ideale estetico e le regole grammaticali che in seguito saranno seguite a lungo dagli scrittori italiani. Secondo Bembo, per scrivere opere che possano essere lette nel corso dei secoli occorreva prendere come modelli Petrarca nella poesia e Boccaccio nella prosa. Per altro verso, intorno al 1530 l’umanista marchigiano Angelo Colucci nei suoi appunti linguistici nomina il termine “dialecti” in relazione al “mutar delle lingue”, cioè alle differenze tra le diverse zone d’Italia. 

Il 15 novembre 2012, nella lectio magistralis sullo “Stato di salute della lingua italiana” pronunciata all’Università di Urbino Carlo Bo in occasione del conferimento di una laurea honoris causa, Andrea Camilleri sostiene che “il padovano di Ruzante, il milanese di Carlo Porta, il romano di Belli, il napoletano di Di Giacomo, il siciliano dell’abate Meli, hanno prodotto opere di altissimo valore letterario che hanno arricchito la nostra lingua”. Quindi lamenta l’apertura nell’epoca postunitaria di una guerra insensata contro i dialetti che, pur raggiungendo il suo apice nel fascismo, aveva svenato il “principale donatore di sangue” della lingua nazionale.


Camilleri  lamenta l’apertura nell’epoca postunitaria di una guerra insensata contro i dialetti che aveva raggiunto il suo apice nel fascismo


Ora, se dopo il 1861 i dialetti sono stati combattuti con una determinazione tale da suggerire l’immagine di una catastrofe, resta da spiegare come mai essi hanno continuato a occupare uno spazio considerevole nella comunicazione quotidiana, e a conoscere perfino insperati momenti di gloria. Forse a causa di quanto scrive Eugenio Montale nella poesia La storia: “La storia non è poi / la devastante ruspa che si dice. / Lascia sottopassaggi, cripte, buche / e nascondigli. C’è chi sopravvive”. Beninteso, una crisi dei dialetti è incontestabile, ma essa risale alla metà del Novecento, con l’istruzione di massa e con la trasformazione dell’Italia da paese agricolo a paese industriale e dei servizi. Tuttavia, “la malerba dialettale”, come recita il titolo di un saggio del critico letterario Pietro Mastri (1903), è ben lungi dall’essere stata estirpata. Basta pensare alla fortuna nient’affatto paesana, ma nazionale, del teatro dialettale di Pirandello e Musco, di Petrolini, di Totò, di Eduardo. Un teatro dialettale apprezzato non solo nei paesi d’origine, ma soprattutto nelle grandi città, e non dai ceti meno istruiti, ma da quelli più colti: “Ai livelli più alti di cultura intellettuale e urbana, non ai più bassi si apprezza quel fatto non di incultura paesana, ma di cultura che è il plurilinguismo del teatro dialettale italiano” (Tullio De Mauro, L’Italia delle Italie, Editori Riuniti, 1992). Si potrebbe aggiungere che il neorealismo segna l’ingresso stabile nel cinema d’autore, e che nei film di Luchino Visconti, Vittorio De Sica, Federico Fellini, Elio Petri, Gabriele Salvatores, Giuseppe Tornatore, Paolo Sorrentino, per fare qualche nome, è sempre presente una componente dialettale.

Ciononostante, sulla realtà e sullo statuto linguistico dei dialetti continuano a circolare opinioni gratuite o spesso non corrette, e non soltanto sui social network. Un caso di scuola è quello del dialetto siciliano. Circa quarant’anni fa, in un’intervista rilasciata alla giornalista francese Marcelle Padovani, Leonardo Sciascia attribuiva all’assenza del tempo futuro nella sua terra un significato antropologico: “La paura del domani e l’insicurezza qui da noi sono tali che si ignora la forma futura dei verbi. Non si dice mai ‘domani andrò in campagna’, ma dumani vaju in campagna, domani vado in campagna’. Si parla del futuro solo al presente. Così quando mi si interroga sull’originario pessimismo dei siciliani, mi vien voglia di rispondere: ‘Come volete non essere pessimista in un paese dove il verbo al futuro non esiste?’” (La Sicilia come metafora, Mondadori, 1979). Il linguista Salvatore Claudio Sgroi ha rintracciato la fonte di questa “suggestione sciasciana” in un’affermazione dello storico inglese Denis Mack Smith: “In un’economia in cui tutto era precario, un comune lavoratore della terra non poteva mai fare programmi per l’avvenire, neanche a breve scadenza. Forse la mancanza del futuro nel dialetto siciliano era espressione di questa difficoltà a pensare al domani” (Storia della Sicilia medievale e moderna, Laterza, 1970). La verità è, però, che l’assenza del futuro si registra in molti dialetti italiani. Non è di casa nel Mezzogiorno e anche in alcune regioni settentrionali. Il “presente in luogo del futuro per di più è diffuso anche in italiano. Ognuno può rendersene conto se presta attenzione all’italiano effettivamente usato nella comunicazione orale” (Nicola De Blasi, Il dialetto nell’Italia unita, Carocci, 2019).


“La paura del domani e l’insicurezza qui da noi sono tali che si ignora la forma futura dei verbi”, scrive Sciascia sul dialetto siciliano


Ma torniamo al punto. L’illustre filologo Gianfranco Contini ha scritto che “l’italiana è sostanzialmente l’unica grande letteratura nazionale la cui produzione dialettale faccia visceralmente, inscindibilmente corpo col restante patrimonio”. E precisava, ad esempio,  che la voce di Salvatore Di Giacomo “è in assoluto una delle più poetiche del suo tempo, forse la maggiore del periodo chiuso tra i Canti di Castelvecchio  e Alcyone e i poeti nuovi”, ossia tra i primi anni del Novecento e l’esperienza di Giuseppe Ungaretti e Montale. Nella nostra storia letteraria, insomma, l’uso del dialetto non nasce mai da un monolinguismo alternativo alla conoscenza dell’italiano. In altre parole, i dialetti non sono lingue parlate da “altri” italiani in una “altra” Italia. Un fenomeno confermato in qualche misura dai dati statistici. 

Secondo un’indagine dell’Istat pubblicata nel 2017, quasi il 46 per cento della popolazione si esprime in italiano con i famigliari, oltre il 32 sia in italiano sia in dialetto, circa il 14 soltanto in dialetto – percentuale che raddoppia negli over 75. Nonostante l’uso del dialetto registri un declino nell’ultimo ventennio, convalidato anche dalle ricerche di linguisti come Giovanni Ruffino e Roberto Sottile (quest’ultimo scomparso prematuramente l’anno passato), questi dati confermano quel che già Dante aveva intuito nel De vulgari eloquentia: non c’è paese di lingua romanza – derivata cioè dal latino – in cui, accanto al fiorentino scelto come lingua nazionale, coesistono così numerosi idiomi regionali o locali. Infatti, come ha dimostrato Tullio De Mauro, la presenza dei dialetti è un tratto distintivo della nostra vicenda culturale (Storia linguistica d’Italia dall’Unità a oggi). In ogni caso, l’asprezza delle contrapposizioni tra chi la vede come un’erbaccia da gettare alle ortiche e chi invece la considera come una incontaminata fonte di creatività, non si può comprendere senza risalire alle ragioni storico-linguistiche della loro esistenza. 

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Nelle condizioni in cui il nostro paese visse prima e dopo la sua unità, l’italiano si scontrò con potenti forze ostili alla sua diffusione territoriale


Cominciamo col dire che i dialetti non sono varianti dell’italiano. Se si vuole ricorrere all’immagine dell’albero genealogico, i dialetti italiani e l’italiano sono altrettanti rami del comune tronco latino, pari in ciò al castigliano o portoghese o aragonese nella penisola iberica; oppure all’occitano o al francese dei nostri cugini d’oltralpe. Chi parla un dialetto, quindi, non sta storpiando l’italiano, ma sta parlando un diverso idioma neolatino. Nella loro diversità, gli idiomi romanzi si raccolgono in due grandi gruppi: occidentali e orientali. Il loro confine non segue i confini tra gli Stati. Esso taglia in due l’Italia: è la cosiddetta linea La Spezia-Rimini. Questa linea è un confine storico ed etnogeografico antichissimo: a metà del primo millennio a. C. separò l’Europa e l’Italia gallica dall’Europa e dall’Italia etrusca, osco-umbra, illirica, greca; in seguito separò l’Italia egemonizzata dalla repubblica romana, a sud del Rubicone, dall’Italia padana, gallica e venetica. Più tardi, ai tempi dell’imperatore Diocleziano (284-305) e poi della nascente Chiesa, separò l’Italia centrata su Mediolanum e sulle diocesi transalpine dall’Italia centrata su Roma e aperta al mondo mediterraneo. 

In secondo luogo, vale la pena ricordare i motivi dell’assunzione del fiorentino a lingua nazionale. Sono quattro: 1) perché, rispetto ad altri dialetti come il napoletano e il lombardo, era di gran lunga più vicino alle forme latine classiche, e quindi pareva più familiare al ceto colto tardomedievale e rinascimentale abituato a leggere e scrivere in latino; 2) per il grande prestigio letterario conferitogli da Dante, Boccaccio e Petrarca; 3) per la capillare opera di promozione svolta dalla potente rete finanziaria toscana; 4) per la volontà delle signorie cittadine e degli ambienti intellettuali più dinamici del Rinascimento di dare all’Italia, politicamente divisa ma vissuta come realtà a suo modo unitaria, una lingua nazionale paragonabile a quella degli Stati europei dell’epoca. 

Tuttavia, nonostante queste significative ragioni di ordine culturale e politico, l’italiano non  ha beneficiato di quelle spinte unificanti di origine religiosa che, fin dal Rinascimento, nei paesi oggi di lingua tedesca portarono le grandi masse alla consuetudine della lettura e della scrittura. Sicché la lingua della cancelleria di Sassonia, usata da Lutero per tradurre la Bibbia, divenne davvero – giusto il suo nome “deutsch” (in latino medievale “teotiscus” voleva dire “popolare”) – lingua di tutto intero un popolo, pur politicamente diviso.

Al contrario, nelle condizioni in cui il nostro paese visse prima e dopo la sua unità, l’italiano si scontrò con potenti forze ostili alla sua diffusione territoriale. Conobbe la molteplicità di città-capitali, ciascuna, con l’eccezione della Roma papale, con oligarchie municipali. Soffrì la mancanza di una borghesia moderna e di strutture amministrative unitarie, come patì la frammentazione della realtà sociale ed economica. In condizioni siffatte, esso visse, fuori di Firenze, Siena e Roma – linguisticamente toscanizzatasi dal sedicesimo secolo tranne che negli infimi, e reietti, strati plebei – come mero appannaggio dei letterati e degli estensori di atti ufficiali. Nella vita quotidiana, anche in occasioni pubbliche, tutte le classi sociali in tutte le regioni continuavano a parlare i dialetti nativi. 

E’ in questo contesto storico-linguistico, solcato da tante fratture e differenze, la radice di un altro fenomeno singolare. In Europa, l’Italia è il paese di gran lunga più ricco di idiomi alloglotti nativi, ossia non importati da recenti ondate di immigrati: occitano, francoprovenzale, francese, tedesco del Rosa, di Belluno e Bolzano, del Veronese e del Vicentino, sloveno, ladino di Bolzano e Trento e friulano, serbocroato, albanese, neogreco di Calabria e Puglia, sardo logudorese e campidanese, catalano, convivono dal Medioevo con i dialetti italiani settentrionali e centro-meridionali. Una ricchezza riconosciuta e valorizzata da De Mauro già nella prefazione a una raccolta di poesie in vernacolo di Anonimo Romano, alias Maurizio Ferrara, (Er communismo co’ la libbertà, Editori Riuniti, 1978), in cui sottolinea come in più di un’epoca della nostra storia letteraria sia stato il dialetto e non l’italiano la lingua materna. 

Del resto, Alessandro Manzoni lo aveva spiegato con grande chiarezza nella famosa seconda introduzione a Fermo e Lucia (1823), dove dichiara apertamente la sua impasse linguistica: “Scrivo male – egli confessa – perché vado in cerca dell’italiano e a ogni frase mi viene in mente il dialetto, e dove non è il dialetto è il francese, lingua d’uso nel mondo borghese (non solo) settentrionale, e dove non è il francese è il latino”. E si potrebbero ricordare altre sue più tarde pagine, dove illustra in modo efficacissimo la conversazione salottiera delle élite, che si svolge tranquillamente in dialetto o in francese, raramente lasciando spazio all’italiano, per festeggiare un invitato venuto da altre parti della penisola.


Secondo un’indagine Istat, quasi il 46 per cento della popolazione si esprime in italiano con i famigliari, circa il 14 solo in dialetto


Soltanto agli inizi del Novecento cominciò ad acquistare qualche consistenza l’abitudine di parlare italiano tra i ceti borghesi delle maggiori città. E, come si è già accennato, soltanto negli anni Cinquanta e Sessanta il boom economico e demografico, con il conseguente inurbamento di vaste masse agricole, impose l’esigenza di un idioma comune. La scuola dell’obbligo, la radio, il cinema sonoro, la televisione, le canzoni, i giornali e la burocrazia hanno fatto il il resto. Un resto che è cronaca, ma una cronaca ancora piena di ombre. 

Secondo i test Pisa dell’Ocse il tasso di analfabetismo funzionale dei nostri giovani è sconfortante, né va molto meglio per gli adulti. Colpa anche dei dialetti e della loro vitalità? Secondo De Mauro, non è così. Le idee educative di manzoniani come Luigi Morandi, di Francesco De Sanctis, di Giuseppe Lombardo Radice, per fare qualche nome, e cioè di insegnare l’italiano non contro i dialetti, ma a partire dai dialetti, da noi hanno trovato un flebile ascolto. La verità è che i dialetti non sono né virginali realtà alternative alla cultura d’élite, come sostengono taluni populisti; né tanto meno corruzioni dell’italiano, da rifiutare e comunque da ignorare. Sono invece voci non sopprimibili nel coro secolare che fa l’identità storica della cultura italiana.

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