Saldature tra identity politics e circo mediatico-giudiziario. Incubi dopo lo Zan

Guido Vitiello

Il ddl avrebbe dato benefici irrisori e fatto danni altrettanto irrisori, se non del tutto congetturali. Ma quel poco che c’era aveva una duplice intonazione, pedagogica e punitiva. Le conseguenze dell’ossequio al panpenalismo imperante

Due considerazioni generali a margine della vicenda Zan. Più di un commentatore ha avvertito, nel fastidio sprezzante verso la farragine procedurale dell’iter legislativo, una nota dell’eterno antiparlamentarismo italiano. Io parlerei piuttosto di “oltreparlamentarismo”, e per dar ragione di questo macchinoso neologismo mi tocca ripercorrere le puntate precedenti. L’assalto della Casaleggio Associati alla repubblica parlamentare si è svolto su due fronti. Il primo era l’utopia della sostituzione delle vecchie camere analogiche con l’accrocco plebiscitario della piattaforma digitale Rousseau. Era il fronte più effimero e grottesco, anche se è stato il più discusso e quello che ha destato più timori. L’agguato, prevedibilmente, è fallito. Il secondo fronte dell’assedio consisteva non già nella estinzione del parlamento, ma nella sua riconversione funzionale in palcoscenico, in fondale per performance mediatico-testimoniali, e ha avuto come stratega supremo il generale Rocco Casalino. Su questo fronte hanno stravinto. Pensate all’esempio più vistoso, gli interventi del deputato Di Battista: esagitati, incendiari, spesso del tutto fuori tema rispetto all’argomento all’ordine del giorno, ma tagliati su misura per essere impacchettati e diffusi come clip virali sui canali propagandistici del M5s e sulle piattaforme social. Il sottinteso era: la lotta politica che conta si svolge altrove, non nella scatoletta di tonno ma nel mare aperto, ed è lì che bisogna vincere. Per finzione scenica ci si rivolge agli onorevoli colleghi, ma è alla fan base che si parla. 


Questo oltreparlamentarismo è l’equivalente politico di quella che Antoine Garapon, a proposito del rituale del processo penale, ha battezzato delocalizzazione: il vero processo non si svolge nel chiuso dell’aula, ma altrove, e in particolare sui mezzi di comunicazione. In Italia questa distorsione ha un anno di nascita preciso, il 1992. In uno studio fondamentale e opportunamente dimenticato sul processo Cusani, “Rituali di degradazione” (il Mulino), il sociologo Pier Paolo Gilioli osservava che i processi di Mani pulite si svolgevano contemporaneamente su due palchi, ossia nelle aule e sui media, e che questo doppio canale imponeva agli imputati di adottare due distinte linee difensive, spesso confliggenti: c’era chi accettava l’umiliazione mediatica per ottenere un risultato più clemente in aula (come Forlani) e chi puntava alla vittoria simbolica anche a costo di svantaggi giudiziari (come Craxi). Ebbene, con il ddl Zan il Partito Democratico si è trovato davanti a un dilemma simile. Poteva “patteggiare” un testo riformato, ma così avrebbe dato la vittoria simbolica all’arcinemico Renzi; poteva, viceversa, usare l’aula come un palcoscenico e ottenere lì la sua gloria, uguale nella vittoria come nella sconfitta: “Portaci pure la morte, ma alla luce!” chiede Aiace a Zeus. Letta ha scelto la seconda via, uno spericolato e marinettiano Zan Tumb Tumb, e così ha trionfato nella scena politica delocalizzata, nell’oltreparlamento delle dirette Instagram. Ha scelto, in altre parole, di mettersi alla scuola strategica di Casalino e Di Battista. 


Il richiamo a Mani pulite – il vaso di Pandora politico-antropologico di quasi tutti i nostri malanni – aiuta a illuminare anche un secondo aspetto della faccenda, ancora confuso e indecifrabile. Anche in questo caso converrà prenderla un po’ alla larga. Ha scritto di recente Bari Weiss, con metafora perfetta, che la cosiddetta cancel culture è il sistema giudiziario della rivoluzione culturale in corso. E’ un sistema fatto di tribunali estemporanei e informali – le cosiddette kangaroo courts – che si riuniscono e poi dileguano, adatte a un paese che non ha avuto l’Inquisizione ma Salem, non la repressione centralizzata dell’eresia ma continue scosse galvaniche di panico morale. Sappiamo però che i venti della storia gonfiano in ogni mare le vele che trovano, e intorno alle nostre coste si aggirano da trent’anni le navi della flotta mediatico-giudiziaria. Che nesso ha tutto questo con il ddl Zan? Apparentemente nessuno. La legge era poca cosa, avrebbe dato benefici irrisori e fatto danni altrettanto irrisori, se non del tutto congetturali, sia nel caso dell’approvazione sia nel caso, che poi si è verificato, dell’affossamento. Ma quel poco che c’era, lungi dall’introdurre nuovi diritti e nuove possibilità di autodeterminazione, aveva una duplice intonazione, blandamente pedagogica e blandamente punitiva, in ossequio al panpenalismo imperante. Forse avrete intuito, a questo punto, dove voglio andare a parare. L’episodio in sé è minimo, il vento è ancora tenue e le avvisaglie non consentono di azzardare previsioni, perciò prendetelo come un vago ammonimento per mettervi paura: non sia mai che al nostro orizzonte si annunciasse una saldatura tra la identity politics all’americana e il circo mediatico-giudiziario all’italiana. Sarebbe una sciagura per tutti.

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