(foto EPA)

Il buon Dostoevskij aveva già capito tutto di Zuckerberg & co.

Antonio Gurrado

L’ideale della pulizia etica sui social è antiquato e retrogrado. Un confronto letterario

Immaginate un formicaio; un formicaio inalterabile in eterno in cui le formiche agiscono tanto ciecamente quanto convintamente, mosse da un’incrollabile costanza e da un carattere intrinsecamente positivo, che non ammette perplessità né arretramenti. Immaginate un’immane tavola logaritmica che, con calcoli di cui nessun cervello umano sarebbe capace, riesca a formulare combinazioni matematiche che regolino la vita umana e sottraggano responsabilità alle azioni, fornendo indicazioni su come comportarsi che consentano di vivere in maniera straordinariamente più facile. Immaginate anzi una enciclopedica pubblicazione benpensante, in cui tutto sia enumerato e segnato in modo così preciso che nessuna azione sia più lasciata alla ventura e tutto accada secondo il più rigido determinismo etico. Immaginate infine un edificio di cristallo, inalterabile in eterno come il formicaio, in cui gli uomini possano sentirsi controllati continuamente in modo tale che, senza lasciare il minimo margine alla propria parte più oscura e vile, mossi dalla stessa costanza delle formiche operino in modo tale da aderire nella maniera più cieca e convinta all’obbligo di mostrare un carattere positivo.

 

Uno degli errori più comuni sulla deriva etica dei social, sugli algoritmi censorii, sulla cancellazione acritica di ogni pulsione non allineata al ritratto idealizzato dell’uomo come dovrebbe essere, è la pretesa che siano sintomo ineluttabile di modernità e che ci stiano portando verso un mondo nuovo, imponderato. Questi mezzi tecnologici sempre più sofisticati sono invece soltanto strumenti di un’ambizione antica, già fallita in passato e destinata a fallire ancora, probabilmente sempre. Tant’è vero che il primo capoverso di quest’articolo non è il blurb di un nuovo romanzo distopico ma un centone di righe prese di peso (ho usato la traduzione di Alfredo Polledro per Einaudi) dalle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, anno 1864. Sobillato da Sanguina ancora di Paolo Nori (Mondadori) l’ho riletto e mi sono reso conto che la chiave per la demolizione di Zuckerberg e compagnia è nascosta lì, fra il settimo e il decimo capitolo della prima parte del romanzo.

L’ideale della pulizia etica praticata automaticamente sui social è dunque antiquato e retrogrado. Positivista nella peggiore accezione del termine, paludatamente ottocentesco, talmente accecato dall’evoluzione ingegneristica da non essersi accorto dei progressi della filosofia: parlo del programma della quinta liceo, niente di che, Nietzsche, Bergson, addirittura Freud. O, quanto meno, da non aver avuto un attimo per leggere le Memorie del sottosuolo e trarne tre idee.

Anzitutto lo scetticismo di Dostoevskij nei confronti degli ingenui persuasi che “a illuminarlo, ad aprirgli gli occhi sui suoi veri, normali interessi, l’uomo subito smetterebbe di far porcherie, subito diventerebbe buono e nobile”. Quindi l’ostinata resistenza dell’uomo che “non desidera la strada indicata e, ostinatamente, di suo arbitrio se ne apre un’altra, difficile, assurda, cercandola poco meno che nelle tenebre”. Da ultimo il fatto che “la ragione è una bella cosa ma non soddisfa che la facoltà raziocinativa dell’uomo, mentre il volere è una manifestazione di tutta la vita, con la ragione e con tutti i pruriti”.

Dalla pixelatura del capezzolo alla cancellazione di intere opere d’arte, dal controllo delle chat private al vaglio delle foto caricate sul cloud, la direzione in cui si muovono gli algoritmi del web è l’eliminazione definitiva di questi pruriti connaturati all’uomo. E’ un’ambizione che risale a quegli stessi anni dell’Ottocento, quando Auguste Comte vagheggiava una sociocrazia avversa alla libertà individuale che sostituisse al disordine delle pulsioni un progresso culminante nel culto dell’umanità. Sorprende che gli attuali fautori della socialcrazia non finiscano in manicomio come Comte; vengano anzi salutati come paladini di un’era migliore. Ma, d’altronde, tutti stanno sempre online e non hanno tempo per Dostoevskij.