Le ombre di Scianna

Vittorio Bongiorno

Dalle immagini delle feste religiose siciliane alla Magnum. E poi Sciascia, l’Europeo, Cartier-Bresson. Uno dei più grandi fotografi italiani si racconta

Dice che quando il giovane Ferdinando comunicò a suo padre che da grande avrebbe fatto il fotografo, quello si disperò senza pace. “Ma che mestiere è?”, si dannava l’uomo, piccolo proprietario di un limoneto a Bagheria, alle porte di Palermo, all’inizio degli anni Sessanta. “Uno che ammazza i vivi e resuscita i morti” sentenziò con severa e inaspettata arguzia. Dice che in paese, in effetti, c’era già il signor Coglitore – nomen omen – il fotografo che, con perizia artigianale, disegnava gli occhi direttamente sulla lastra dei ritratti dei defunti. Bastava già lui, a Bagheria, perché rovinarsi la vita con un mestiere maledetto? Dice che il giovane Ferdinando, in realtà, cominciò a fare foto alle compagne di scuola, più per scoprire se stesso che gli altri. “Siccome ’ste foto piacevano, ho pensato fosse una via di fuga per fuggire dal destino che mio padre mi aveva preparato: fare il medico o l’ingegnere. Ma la fotografia non è stata la scoperta di una vocazione. Ho cominciato a fare foto perché la Sicilia era lì, e la Sicilia era lì non perché facessi foto ma perché mi interpellava sulla mia identità”, racconta oggi il grande fotografo.

 

L’uscita della nuova edizione della sua autobiografia “Autoritratto di un fotografo” (Contrasto, €22,90 euro) è la scusa perfetta per andare finalmente a trovarlo nel suo studio milanese, autentico sancta sanctorum nascosto in un cortile nell’operosa Chinatown, dopo anni di trepidante attesa e desiderio. In borsa ho una manciata di libri suoi – selezione meno pesante che ho deciso nottetempo di lasciare a casa – perché Scianna è sì uno dei più importanti fotografi internazionali, ma è diventato, nel tempo, anche un raffinato scrittore e io ho comprato tutti i suoi libri, anche alcuni introvabili. “Ma molto della mia scrittura riguarda la fotografia. Se avessi fatto il macellaio avrei riflettuto sulla macelleria. E’ una cosa molto siciliana, pirandelliana, di riflettere su quello che si fa, su quello che si è”, si schermisce lui caricando una delle sue pipe nella quieta penombra del suo ampio studio dove ogni centimetro di parete è ricoperta di libri, quadri, fotografie, disegni, e oggetti, a centinaia, ovunque, provenienti da ogni parte del mondo. Indossa una giacca di velluto verde scuro su una blusa blu e sneakers comode, tipiche di un camminante. Gli occhi, vispissimi, nonostante la poca luce qui dentro, due fessure che mi scrutano da una certa distanza, il suo volto che, curiosamente, mi sembra paterno.

 

Dice che tutto nacque proprio da un libro, fatto con l’altro grandissimo siciliano Leonardo Sciascia, che aveva visto per caso le sue foto, appena ventenne, scattate in varie processioni ed eventi religiosi in giro per l’isola. La Sicilia, dunque, inevitabilmente, come privilegio ma anche maledizione. “Ci sono luoghi che più di altri, probabilmente, determinano nel bene e nel male un modo di essere che ci si porta dietro per sempre”, scrive il fotografo all’inizio del suo viaggio autobiografico lungo più di sessant’anni di carriera e quasi 60.000 fotografie archiviate e catalogate. Quei primi scatti, rigorosamente in bianco e nero, ritraggono sguardi obliqui e velati di Cristi mantegnani portati in processione, bambini seminudi issati su altari sacri, contadini vestiti a festa – rigorosamente di nero – e volti segnati dal sole e dalla fatica della terra. Un mondo praticamente scomparso. Immagini costruite sorprendentemente a partire dall’ombra. “Io dico che il sole mi interessa perché fa ombra”, racconta lui divertito. E dice che una giornalista francese scrisse “come è nera la Sicilia di Scianna”, e fu probabilmente in quel momento che lui si accorse che le sue foto erano nere. Soffia un filo di fumo e ride di gusto. “Forse io non me ne ero accorto, che a partire dall’ombra producevo immagini di una drammaticità che era più esistenziale, storica, di quanto non fosse formale. Che però poi si scioglievano nella forma”.

 

Quell’esordio, “Feste religiose in Sicilia”, con testi di Sciascia e foto di Scianna, uscì nel 1965 per la Leonardo da Vinci di Bari e successe il finimondo (oggi, su Ebay, una copia vale dai 400 agli 800 euro). “Ebbe una stroncatura di due colonne sull’Osservatore Romano, nelle presentazioni c’erano urla, volavano sedie”, ridacchia sornione il fotografo, “una cosa curiosa che per me fu importantissima”. Il libro, ricevuto a casa Scianna come un oggetto sospetto, si trasformò in biglietto di sola andata per Milano, dove, grazie a un altro incontro fortuito con Roberto Leydi, il giovane Ferdinando venne assunto all’Europeo, che diventò la sua vera scuola di scrittura e fotografia, pratica quotidiana e grande apprendimento sul campo insieme al collega cronista. “Vedevamo le stesse cose, sentivamo le stesse persone, io poi cercavo una immagine, lui cercava una storia. Ma ho dovuto aspettare che i miei grandi amici scrittori fossero morti per osare qualche cosa di tipo diverso”. Oltre a Sciascia, il suo mentore, questi amici rispondono al nome di Jorge Luis Borges, Milan Kundera, Roland Barthes, Manuel Vázquez Montalbán, in pratica l’Olimpo degli Dei. Dunque fotografie che non fossero illustrazioni dei testi e testi che non fossero didascalia della fotografia, che si leggessero come un nuovo tipo di letteratura.

 

Durante un cambio di pipa, in un improvviso e raro momento in cui il Maestro abbassa gli occhi di ghiaccio dal sottoscritto cerco di rubargli una foto con l’iPhone – lo so, è una bestemmia – e infatti viene tutta mossa e la cancello, dandomi del coglione. Lui continua a raccontare, come se niente fosse, dopo un altro sbuffo di fumo dolce, col suo vocione languido e tonante. “Io non so chi ha fatto le foto delle feste religiose, perché avevo diciassette anni, la mia ignoranza era più grande di quella che ho adesso, non sapevo niente… neanche di fotografia. Però c’era evidentemente un istinto, e quella specie di conoscenza mediata dalla cultura delle cose. Di Cartier-Bresson avevo visto poco, ma quando uscì quel libro definirono le mie fotografie bressoniane. Vidi ‘Images à la Sauvette’ (il celebre libro di HCB) a casa di Sciascia, e lo fotografai pagina per pagina. Quindi sono stato influenzato da Cartier-Bresson prima di conoscerlo. E dopo è diventato mio amico e mi ha influenzato in tutti i sensi, sia dal punto di vista fotografico che di vita”.

 

Ride divertito Scianna, che oggi ha settantasette anni e sa di aver vissuto una vita da romanzo, fatta di incontri memorabili, ma soprattutto di giochi del destino. A leggere il suo libro c’è da perdersi nei racconti toccanti, dalle foto scoop dell’invasione sovietica in Cecoslovacchia – riuscì a passare il confine perché sul passaporto risultava ancora studente – a quelle del villaggio di minatori boliviani, che “vivevano morendo”. Ma si leggono anche passaggi sorprendenti, come quando Cartier-Bresson gli chiede di presentare il suo portfolio alla prestigiosa agenzia Magnum, primo fotografo italiano a farlo. “Io non avrei mai osato, era una specie di Pantheon… tutte le fotografie che mi interessavano avevano la parolina Magnum dietro”. Nonostante io conosca la sua biografia a menadito, letta in decine di suoi libri, provo piacere nel fargli ripetere avvenimenti e capovolgimenti esistenziali che lui ha già raccontato mille volte, ma che ogni volta si colorano di uno sbuffo, un sorriso, una pennellata inaspettata per mano e sguardo e voce di un esperto raccontastorie.

 

I miei sono libri con fotografie, non libri di fotografia. Noi pretendiamo che sia traccia di realtà. La definizione di fotografia l’ha data sir John Herschel, ‘foto-grafia’: scrittura di luce, io sostengo, visto che lui era scienziato. Il fotografo è un lettore. Ho fatto di mestiere anche il fotografo con la luce, perché ho fatto il giornalista, ma dentro di me rimane la fotografia come avventura impossibile, di un istante significativo sia da un punto di vista documentario sia da un punto di vista formale”. Una lezione di fotografia personalizzata. E dice che, con un altro capitombolo narrativo, a metà anni Ottanta venne contattato da due giovanissimi e ancora sconosciuti stilisti, che avevano visto le sue foto della Sicilia, per fotografare loro la nuova collezione. I due – al secolo Domenico Dolce e Stefano Gabbana – non avevano un soldo, manco una truccatrice al seguito, e viaggiavano con la meravigliosa modella olandese Marpessa. Scianna non aveva mai fatto foto di moda, ma riuscì lo stesso a giocare con i contrasti, inserendo un elemento alieno dentro il teatro del reale, come racconta nel libro. Nonostante prima di lui Frank Horvat avesse portato le modelle fuori dallo studio di posa, gli scatti di Marpessa tra i vicoli di Caltagirone entrarono immediatamente nell’immaginario collettivo. Per poi scoprire – e Scianna ride ancora sonoramente, dopo più di trent’anni – che le foto viste dai due stilisti non erano sue. “Che ruolo ha il caso nella vita! Un fotografo, poi, dovrebbe averla già avuto questa lezione. Fu una cosa che, fino a un certo punto, ha molto cambiato la mia pratica di fotografo, ma poi m’abbuttò”, racconta lui. Essendo conterranei si concede qualche accenno dialettale. Io lo provoco per estorcergli il nome del collega ma lui si chiude in muto silenzio. “Unnu sacciu”, ridacchia e cambia pipa.

 

Il libro alterna riflessioni storico-tecnologiche sulla fotografia a pezzi di vita vissuta in giro per il mondo, con una vena ironica che è la vera bellezza della lettura. Qualcuno ha detto: “Scianna lavora sveltissimo, il più rapidamente possibile, perché dopo va a farsi le foto sue. Ecco, un fotografo è uno che guarda cercando di vedere questa cosa impossibile di un istante che prende senso”. Volti, dunque, ma anche paesaggi, animali e cose, a decine, centinaia, fotografate o acquistate compulsivamente. “Le cose raccontano il mondo e la società da cui vengono fuori. Poi ci sono tutte queste minchiate… i cavallucci, le statuine da presepe, le marionette… a un certo punto c’è un’immagine che ti prende. In un banchetto fuori dalla Corrida a Madrid o in Vietnam o in Africa, se non c’è la forma per fare una foto, allora compro la cosa. Tratto sempre – questo giuoco levantino della trattativa è affascinantissimo – ma porto a casa l’oggetto. Il che è una variante del gesto del fotografo, però di tipo appropriativo. Non lo considero un collezionismo, lo considero una sindrome accumulatoria che produce nel tempo una specie di autoritratto”.

 

“Firmami ’sto libro và”, borbotta indicando il romanzo che gli ho portato in omaggio – la storia di un conflitto tra un padre e un figlio a Palermo! – e capisco che il mio tempo è finito. Lui mostra alla moglie con un certo orgoglio il piccolo cavalluccio di cartapesta di un vecchio artigiano palermitano ormai scomparso che ho ritrovato in un armadio e che gli dono per aggiungerlo alla sua mandria immaginaria. “A quanto pare anche lui è un accumulatore figlio di accumulatore”, ridacchia indicandomi. Alla fine gli chiedo se ci pensa mai a suo padre, che, come il sottoscritto con il proprio genitore, fece disperare. “Una delle cose che ho fatto dopo il repulisti nello studio, cioè alleggerirmi sia fisicamente che spiritualmente di più di una tonnellata di carta, ho scritto una cosa su mio padre. Non è che avessimo idee diverse sulle stesse cose. Proprio avevamo altre idee del mondo e della vita. Mi è sembrato di restituirgli un posto nella mia vita e nella mia memoria. Serve anche a questo scrivere”. Dice che, come l’amico HCB, anche Scianna ha smesso di fotografare. Per ragioni fisiche, che gli impediscono di camminare, di inseguire quell’istante magico e ossessivo, ma quando fotografa, me lo dice all’improvviso, “io sono più felice”. E allora, mi pare chiaro, bisognerà trovare una “scusa”, un caso, un nuovo giuoco del destino, per farlo stanare dalla sua tana e riportarlo fuori. A inseguire un attimo evanescente e fumoso, eppure inebriante. Di felicità.

 

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