Foto Ansa 

Rigopiano: morti (e vivi) ancora senza giustizia

Ermes Antonucci

A cinque anni dalla tragedia non è ancora stato raggiunto un verdetto provvisorio circa le responsabilità dell’evento. La lentezza delle indagini preliminari è una vergogna ma i giudici ora sembrano volere accelerare le udienze

Sono trascorsi esattamente cinque anni dalla tragedia dell’Hotel Rigopiano, dalla valanga che il 18 gennaio 2017 travolse il resort di lusso posto ai piedi del Gran Sasso, a Farindola (Pescara), uccidendo ventinove persone (undici i sopravvissuti). Mancavano pochi minuti alle 17 quando una slavina dal peso di 120 mila tonnellate, lanciata ad una velocità compresa fra i 50 e i 100 chilometri orari, travolse l’albergo portandosi via la vita di 29 persone.

    

Una tragedia enorme, avvenuta in uno scenario quasi apocalittico. In quelle ore, infatti, l’Abruzzo era alle prese con un’emergenza neve senza precedenti: migliaia di persone senza luce, comuni irraggiungibili, centinaia di richieste di aiuto, mezzi spazzaneve insufficienti. A completare il dramma quattro scosse di terremoto, tutte di magnitudo superiore a 5. L’Hotel Rigopiano, orgoglio del turismo montano abruzzese, venne letteralmente travolto e seppellito dalla valanga. 

  

È passato un lustro dalla tragedia e la giustizia italiana non è stata in grado di raggiungere neanche un verdetto provvisorio circa le responsabilità dell’evento. A stabilire, cioè, se la causa del disastro è da rintracciare soltanto negli eccezionali fenomeni atmosferici che avvennero in quelle ore oppure anche nell’operato di chi realizzò il resort e di chi era incaricato di prevenire l’emergenza e di attivare e gestire la macchina dei soccorsi. Cinque anni senza un verdetto, neanche provvisorio: l’emblema di una giustizia lumaca, che lascia nel limbo, in primis, i familiari delle vittime, travolti da un dolore senza fine, e, in secondo luogo, i soggetti indagati, già bollati dall’opinione pubblica come colpevoli in attesa di una condanna certa. 

  

Si è scritto in queste ore che il processo sulla tragedia del Rigopiano dopo cinque anni non sarebbe neanche partito. In realtà, ventinove imputati su trenta (rappresentanti di regione, provincia, comune di Farindola, prefettura e della stessa struttura alberghiera) hanno chiesto di essere giudicati con il rito abbreviato, cioè dal giudice dell’udienza preliminare, senza passare dal dibattimento. Si ritiene plausibile, quindi, se non ci saranno ulteriori allungamenti dovuti soprattutto alla pandemia da Covid-19, che il verdetto di primo grado possa arrivare entro la fine dell’anno in corso. 

   

La vera vergogna, in tutta la vicenda, è da rintracciare proprio nella lentezza delle indagini preliminari. Non una novità, se si considera, come abbiamo riportato più volte, che circa il 60 per cento delle prescrizioni matura durante la fase delle indagini preliminari (motivo per cui la “riforma Bonafede” che ha abolito il decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado non serve in alcun modo ad accelerare i tempi del processo, ma soltanto a renderli eterni). 

   
Sfogliando le cronache riguardanti il processo Rigopiano, scopriamo così che soltanto lo scorso ottobre il tribunale di Pescara ha incaricato un pool di tecnici, professori del Politecnico di Milano, di redigere una perizia terza sui diversi aspetti fondamentali relativi alle possibili cause e responsabilità della tragedia di Rigopiano (le cause della valanga, l’incidenza dei sismi, la prevedibilità della valanga, le operazioni effettuate sulla viabilità). Questa decisione è stata presa soltanto dopo che le perizie prodotte dalla procura e dalle difese sono risultate contrastanti sulle cause della tragedia (era proprio impossibile, per i giudici, immaginare uno scenario del genere?). 

 

Nonostante queste lentezze, i giudici sembrano ora voler puntare a una forte accelerazione delle udienze. Il procuratore capo di Pescara, Giuseppe Belelli, in un’intervista al Messaggero, ha dichiarato: “Chiederemo un calendario serrato di udienze, con l’obiettivo di arrivare a sentenza, anche grazie al rito abbreviato, entro pochi mesi. Molto prima della fine dell’anno. È un impegno che devo a padri, compagni, fratelli che piangono i loro cari. E a quanti portano, da vivi, i segni della sciagura”. Dimentica, il procuratore di Pescara (forse per deformazione professionale), che arrivare a sentenza in tempi brevi costituisce un impegno che lo Stato dovrebbe garantire anche agli stessi imputati, i quali godono del diritto alla ragionevole durata del processo. 

 

Di certo la vicenda Rigopiano offre alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, tanto materiale su cui prendere appunti in vista della riforma del processo penale.

Di più su questi argomenti: