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nota explicativa praevia (ops) al dibattito su Bergoglio

Tutti i programmi dei Papi falliscono, meglio guardare ai loro semi

Maurizio Crippa

Dai progetti culturali ai dialoghi di Ratzinger alle profezie di Wojtyla e Montini. Le verità che restano, nascoste

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Girano da qualche tempo, in questo tempo post lockdown, allarmate segnalazioni e persino lettere di vescovi, compresa una della Cei, sul fatto che la ripresa delle messe in presenza stia facendo registrare un secco calo dei fedeli che partecipano al rito in chiesa. Si attendono le statistiche, ma mancherebbero maggiormente i giovani. Un evidente cattivo segnale per la chiesa, che da parte dei commentatori cattolici conservatori (anche tralasciando i tradizionalisti-negazionisti) viene letto come la prova provata che il “cedimento” sulla chiusura delle chiese è stato un dannoso tradimento della fede, al limite della blasfemia. Non entriamo nel merito, ma si potrebbe utilmente ragionare su un’altra evidenza: se molti cattolici hanno repentinamente perso l’abitudine della messa domenicale, significa che la loro adesione alla vita della chiesa non era così radicata. “Cattolici di facciata”, si diceva una volta. Ma da questo dovrebbe discendere anche una riflessione più urgente e scomoda, che infatti è totalmente trascurata. Quella sui decenni persi, in Italia ma con il beneplacito papale, a cullarsi su un “eccezionalismo italiano” basato su una tenuta antropologica e popolare cattolica che evidentemente non c’è, o era colpevolmente sovrastimata. E questo ci introduce in argomento, l’argomento dei programmi dei Papi (ma anche delle Conferenze episcopali, si avesse voglia di andare a vedere cosa accade nel mondo: la discrepanza tra le parole e gli esiti). Il Progetto culturale della chiesa italiana di epoca ruiniana, basato com’era sul presupposto di un eccezionalismo cattolico da mettere a frutto, è stato un disastro inconcludente. Perché si basava su un’astrazione e non sulla costatazione che il cattolicesimo in Italia, come nel resto dell’occidente, è una minoranza residuale, che al massimo può essere “creativa”, diceva Ratzinger, ma non egemonica. Poi è venuto un Papa chiamato “quasi dalla fine del mondo”, “buonasera”, a portare la notizia di prima mano che in quelle parti del mondo, due terzi del mondo, così come nello sfibrato occidente la situazione antropologica è quella che è, trovare una famiglia tradizionale è dura anche tra chi va in chiesa, si sta chiusi in parrocchia eccetera. Notizie già evidenti anche qui, e non solo per colpa della Germania, se non fosse per i paraocchi dei progetti culturali. Si può soltanto ripartire dall’annuncio del Vangelo e dalla testimonianza, dall’abc delle preghiere e dal catechismo della misericordia. Questo era l’unico programma, e non a caso Francesco lo ha rilanciato nell’Angelus di domenica scorsa: “E’ meglio una chiesa incidentata, per uscire, che una chiesa ammalata da chiusura. Perché Dio esce sempre”.

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Girano da qualche tempo, in questo tempo post lockdown, allarmate segnalazioni e persino lettere di vescovi, compresa una della Cei, sul fatto che la ripresa delle messe in presenza stia facendo registrare un secco calo dei fedeli che partecipano al rito in chiesa. Si attendono le statistiche, ma mancherebbero maggiormente i giovani. Un evidente cattivo segnale per la chiesa, che da parte dei commentatori cattolici conservatori (anche tralasciando i tradizionalisti-negazionisti) viene letto come la prova provata che il “cedimento” sulla chiusura delle chiese è stato un dannoso tradimento della fede, al limite della blasfemia. Non entriamo nel merito, ma si potrebbe utilmente ragionare su un’altra evidenza: se molti cattolici hanno repentinamente perso l’abitudine della messa domenicale, significa che la loro adesione alla vita della chiesa non era così radicata. “Cattolici di facciata”, si diceva una volta. Ma da questo dovrebbe discendere anche una riflessione più urgente e scomoda, che infatti è totalmente trascurata. Quella sui decenni persi, in Italia ma con il beneplacito papale, a cullarsi su un “eccezionalismo italiano” basato su una tenuta antropologica e popolare cattolica che evidentemente non c’è, o era colpevolmente sovrastimata. E questo ci introduce in argomento, l’argomento dei programmi dei Papi (ma anche delle Conferenze episcopali, si avesse voglia di andare a vedere cosa accade nel mondo: la discrepanza tra le parole e gli esiti). Il Progetto culturale della chiesa italiana di epoca ruiniana, basato com’era sul presupposto di un eccezionalismo cattolico da mettere a frutto, è stato un disastro inconcludente. Perché si basava su un’astrazione e non sulla costatazione che il cattolicesimo in Italia, come nel resto dell’occidente, è una minoranza residuale, che al massimo può essere “creativa”, diceva Ratzinger, ma non egemonica. Poi è venuto un Papa chiamato “quasi dalla fine del mondo”, “buonasera”, a portare la notizia di prima mano che in quelle parti del mondo, due terzi del mondo, così come nello sfibrato occidente la situazione antropologica è quella che è, trovare una famiglia tradizionale è dura anche tra chi va in chiesa, si sta chiusi in parrocchia eccetera. Notizie già evidenti anche qui, e non solo per colpa della Germania, se non fosse per i paraocchi dei progetti culturali. Si può soltanto ripartire dall’annuncio del Vangelo e dalla testimonianza, dall’abc delle preghiere e dal catechismo della misericordia. Questo era l’unico programma, e non a caso Francesco lo ha rilanciato nell’Angelus di domenica scorsa: “E’ meglio una chiesa incidentata, per uscire, che una chiesa ammalata da chiusura. Perché Dio esce sempre”.

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Il dibattito avviato dalla bella analisi di Matteo Matzuzzi, che riprendeva un problematico saggio, abilmente sulla difensiva, di padre Antonio Spadaro sulla Civiltà cattolica a proposito della crisi del programma di Bergoglio merita forse questa nota: se Francesco si fosse meno affidato ai costruttori di programmi pontificali e più alla “notizia” di un mondo per cui il passato di una religione (per parafrasare François Furet) non conta nulla avrebbe fatto meglio. Questo detto, i molti fan del fallimento del programma bergogliano dovrebbero misurarsi con qualcosa di più profondo, che riguarda la chiesa da qualche secolo: tutti i Papi hanno fallito, nei loro intenti programmatici. Per stare ai recenti, Benedetto XVI aveva fatto programma di dialogare in positivo con i laici illuministi, si è trovato di fronte a molte perdite di tempo e a porte sbattute in faccia. La pulizia della chiesa che fu il suo programma in eligendo Pontifice è finita in un disastro di scandali e cattivi odori di curia che ha portato alle sue dimissioni. Giovanni Paolo II arrivò da un paese lontano chiedendo di “aprire le porte a Cristo”, ma ha dovuto assistere piuttosto impotente a una messinscena trionfale ma fasulla e a un furibondo ventennio di secolarizzazione galoppante, per non dire dei torbidi euroasiatici del post comunismo su cui ben poco hanno potuto Cirillo e Metodio. Il fallimento di Paolo VI, più che la sempre citata Humanae vitae, una partita nobile perché persa in partenza, è da cercare nel fatto che fu il Papa intellettuale che aprì agli artisti e alla cultura, ma fu respinto. Andò con l’elmetto da siderurgico incontro agli operai, e fu accolto come un amico dei padroni. Per non dire dell’inascoltata Populorum Progressio, Il cardinal Brandmüller ha ricordato sul Foglio come il Sillabo di Pio IX sia stato “un flop”, e che invece un grande contributo del Papa antimodernista sia stato il più umile rilancio della devozione tradizionale dei fedeli. Si potrebbe continuare, senza nessun cinico ditino puntato e anzi sollevando dubbi su coloro (a qualunque parte ecclesiale appartengano) che sembrano più interessati ai fallimenti programmatici dei Papi che alla salute della “barca di Pietro” che, come disse tra le prime cose Benedetto XVI “la conduce il Signore”. Programmi ed encicliche programmatiche sono un passaggio obbligato. Ma appendere a esse tutto il valore dell’operato dei Papi rischia di essere fuorviante. Di Paolo VI l’intuizione del dialogo con la società contemporanea o del significato della vita umana, rimangono, anche per la stessa chiesa, il primo passo di cammini ancora da affrontare. Lo stesso vale per molte letture profetiche di Wojtyla, non ultima quella sulla donna e sul ruolo della donna nella chiesa che, resta inevasa.

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Il professor Ratzinger ha restituito, nel suo pontificato, una consapevolezza della figura storica di Gesù di Nazareth senza la quale la chiesa non va da nessuna parte, tantomeno in uscita. Lo stop di alcuni annunciati progetti di Francesco sulla valorizzazione della donna, sui divorziati e ovviamente sulla salvezza del “cosmo” sono per i critici salvifiche dimostrazioni che le sue idee erano sbagliate. Ma come per quelli seminati da altri Papi, sono semi che prima o poi germoglieranno (Bergoglio ritiene che il tempo sia superiore allo spazio) o in ogni caso temi che prima o poi interrogheranno la chiesa. Per dirne uno, lo sguardo sulla diversità sessuale è semplicemente la presa d’atto di quel che il mondo vive (non risulta che il primo atto di Pietro giunto a Roma sia stato di recarsi da Nerone per chiedere leggi restrittive sui costumi sessuali dei decadenti romani). Persino l’ecologia è una questione che non si è inventato lui, ma una domanda di lunga durata: “L’uomo d’oggi sembra essere sempre minacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani… Invece, era volontà del Creatore che l’uomo comunicasse con la natura come ‘padrone’ e ‘custode’ intelligente e nobile, e non come ‘sfruttatore’ e ‘distruttore’ senza alcun riguardo”. Non è la Laudato si’ ma la Redemptor hominis, prima enciclica di Giovanni Paolo II. I Papi non fanno programmi, seguono il vento dello Spirito.

 

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