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Il governo della Chiesa

Il tramonto di un papato

Francesco non ha una road map di riforme prestabilite, scrive padre Spadaro. E’ proprio così? Dai Sinodi alla Cina, un programma chiaro c’è eccome. Il problema, semmai, sono i risultati

Matteo Matzuzzi

Erano stati i sostenitori più accesi di Bergoglio (cardinali compresi) a definirlo rivoluzionario. Si erano sbagliati tutti o forse qualcosa è andato storto? Indagine

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L’ultimo numero della Civiltà Cattolica si apre con un lungo articolo di padre Antonio Spadaro, direttore della rivista, che già dal titolo fa comprendere la serietà della questione posta: “Il governo di Francesco. E’ ancora attiva la spinta propulsiva del pontificato?”. La domanda non è peregrina, visto che negli ultimi mesi da più d’un commentatore, italiano e (soprattutto) straniero è stata posta. Chi con mero gusto dissacratorio e spirito apocalittico – rientrano  nella categoria i vescovi estensori di comunicati antipapisti al contempo  esperti di pandemie globali e  quanti propugnano la storia di “Benedetto vero Papa”: non sono meritevoli però di troppa attenzione se si vuole sviluppare un discorso serio – e chi con intento riflessivo e indagatore. La tentazione, e qui ha ragione Spadaro, è di fare della riforma “un’ideologia dal vago carattere zelota” che “avrebbe da temere dalla mancanza di supporter. Sarebbe alla mercé della disillusione dei circoli di coloro che hanno in mente un’agenda da realizzare”. 

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L’ultimo numero della Civiltà Cattolica si apre con un lungo articolo di padre Antonio Spadaro, direttore della rivista, che già dal titolo fa comprendere la serietà della questione posta: “Il governo di Francesco. E’ ancora attiva la spinta propulsiva del pontificato?”. La domanda non è peregrina, visto che negli ultimi mesi da più d’un commentatore, italiano e (soprattutto) straniero è stata posta. Chi con mero gusto dissacratorio e spirito apocalittico – rientrano  nella categoria i vescovi estensori di comunicati antipapisti al contempo  esperti di pandemie globali e  quanti propugnano la storia di “Benedetto vero Papa”: non sono meritevoli però di troppa attenzione se si vuole sviluppare un discorso serio – e chi con intento riflessivo e indagatore. La tentazione, e qui ha ragione Spadaro, è di fare della riforma “un’ideologia dal vago carattere zelota” che “avrebbe da temere dalla mancanza di supporter. Sarebbe alla mercé della disillusione dei circoli di coloro che hanno in mente un’agenda da realizzare”. 

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Il punto fondamentale del ragionamento del direttore della Civiltà Cattolica, molto vicino al Papa, è che è sbagliato fare bilanci, mettendo su un piatto quel che è stato fatto e sull’altro quel che non s’è fatto, andando a guardare da che parte pende il piatto. No, “la spinta propulsiva del pontificato non è la capacità di fare cose o di istituzionalizzare sempre e comunque il cambiamento, ma di discernere tempi e momenti di uno svuotamento perché la missione faccia trasparire meglio Cristo. E’ il discernimento stesso la ‘struttura sistematica’ della riforma, che si concretizza in un ordine istituzionale”. Per capire Francesco bisogna tornare a Ignazio, non ci sono vie di mezzo né scorciatoie. E il “progetto ignaziano di Francesco non è una pianificazione di funzioni, non è un assortimento di possibilità. Il suo progetto consiste nel rendere esplicito e concreto ciò che egli aveva vissuto nella sua esperienza interiore”. Ne consegue che “la domanda su quale sia ‘il programma’ di Papa Francesco non ha senso. Il Papa non ha idee preconfezionate da applicare al reale, né un piano ideologico di riforme prêt-à-porter, ma avanza sulla base di un’esperienza spirituale e di preghiera che condivide passo passo nel dialogo, nella consultazione, nella risposta concreta alla situazione umana vulnerabile. Francesco – scrive ancora Spadaro – crea le condizioni strutturali di un dialogo reale e aperto, non preconfezionato e studiato a tavolino strategicamente”. 

 

Ma è proprio qui che qualche dubbio inizia a farsi largo. Premesso che avere un programma non è delittuoso – i cardinali che votano un confratello per mandarlo sul trono di Pietro guardano bene cosa pensa e cosa no su determinati temi, visto che sul Conclave non scendono colombe bianche a indicare l’eletto, a quanto è dato sapere – in questi otto anni di pontificato Francesco una rotta ben impostata l'ha mostrata eccome. Anche perché, come notava Michael Sean Winters sul liberal National Catholic Reporter, bisognerebbe domandarsi se è possibile che un Papa non abbia un programma. Che poi la rotta di Francesco sia puntata al largo, verso orizzonti non meglio precisati, è un altro discorso. In questo ha ragione da vendere il direttore della Civiltà Cattolica quando afferma che “compito del riformatore è iniziare o accompagnare i processi storici”, aggiungendo che “questo è uno dei princìpi fondamentali della visione bergogliana: il tempo è superiore allo spazio. Riformare significa avviare processi aperti e non tagliare teste o conquistare spazi di potere. E’ proprio con questo spirito di discernimento che Ignazio e i primi compagni hanno affrontato la sfida della Riforma protestante”. 

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Tutto vero, però il primo a dire che alla base del pontificato – come è logico che sia – c’è un programma è stato il Papa nell’esortazione del 2013 Evangelii gaudium, al n. 21: “Ciò che intendo qui esprimere ha un significato programmatico e dalle conseguenze importanti. Spero che tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno. Ora non ci serve una ‘semplice amministrazione’. Costituiamoci in tutte le regioni della terra in uno ‘stato permanente di missione’”. Insomma, un programma c’era e c’è e non si tratta tanto di tematizzare una sorta di “opposizione tra conversione spirituale, pastorale e strutturale”: le cose vanno di pari passo. Che poi non tutto sia andato secondo le intenzioni iniziali, è un altro discorso, ma ciò non è una peculiarità di questo pontificato, come la storia insegna, anche quella più recente. Nei primi mesi dell’èra bergogliana, più che dello spirito si parlò dell’amministrazione, di uffici e personale: chirografi su chirografi, commissioni e comitati per riformare, cambiare, aggiornare. Tutto perché, nelle congregazioni generali del pre Conclave, i cardinali avevano preteso da chiunque fosse stato eletto un giro di vite, una grande riforma che solo un Papa-manager (lo dissero i cardinali nordamericani, già delusi quattro mesi dopo l’elezione di Francesco perché il segretario di stato, Tarcisio Bertone, era ancora al suo posto) avrebbe potuto realizzare. Il cardinale honduregno Oscar Andrés Rodríguez Maradiaga, gran elettore di Bergoglio, collezionava apparizioni televisive e interviste sui giornali annunciando la rivoluzione e la primavera ormai giunta grazie all’impetuoso vento dello spirito e facendo il gioco di chi sottolineava la discontinuità tra il papato nuovo e quello vecchio ratzingeriano. Se il Papa non fosse stato d’accordo con la tabella di marcia di Maradiaga sulla rivoluzione imminente, quantomeno per una questione d’elementare prudenza avrebbe potuto richiamare fraternamente all’ordine il collega di Tegucigalpa. Invece Maradiaga è stato nominato coordinatore di quello che era il C9, talmente istituzionale e strutturato che all’origine aveva un componente per continente, incaricato di riformare la curia. 


Padre Spadaro nota che “oggi la tentazione nella quale rischiano di cadere alcuni commentatori e analisti è quella di immaginare un Papa che costruisce una road map di riforme istituzionali, elaborate con spirito progettuale, funzionalistico e organizzativo. Come pure la tentazione di proiettare i contenuti di tale mappa sul procedere del pontificato, e infine giudicarlo alla luce di tali criteri”. 


Domanda: ma quando Francesco, sempre in Evangelii gaudium – che abbiamo capito essere il programma del pontificato – scrive che “ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle Conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della chiesa e la sua dinamica missionaria”, non dà forse un’indicazione chiara di riforme elaborate con spirito progettuale e organizzativo? Certo, si parla di “dinamica missionaria”, ma l’accento è posto sulla concessione di qualche “autentica autorità dottrinale” alle chiese locali. Non a caso i tedeschi, che i documenti li sanno leggere bene e meglio di tanti altri, hanno immediatamente colto la palla al balzo, prima calando a Roma con le richieste ultimative a ogni assemblea convocata dal Papa e poi organizzando loro stessi un Sinodo che si ripromette di cambiare dottrina e pastorale perché – come disse il cardinale Reinhard Marx, “non è Roma a dirci come dobbiamo comportarci qui”. Lo sa bene anche Francesco, tant’è che per bloccare il disastro in arrivo ha dovuto spedire lettere accorate ma chiarissime nei contenuti ai vescovi tedeschi chiedendo loro di discernere meglio la questione prima di far rullare i tamburi e procedere con piani e progetti che ciclicamente risorgono al di là delle Alpi. 

Scrive Spadaro che “non c’è un piano astratto di riforma da applicare alla realtà” anche perché, ed è vero, “gli apostoli non preparano una strategia”. Non ci saranno strategie o road map, però i temi dei vari Sinodi celebrati dal 2014 in poi li ha scelti Francesco. E ha scelto temi che sapeva essere divisivi; temi che avrebbero incendiato gli animi e creato spaccature allargando fossati già distanti l’uno dall’altro. E’ Francesco che ha scelto Walter Kasper, finissimo teologo e arcigno combattente per le cause in cui crede, come sommo relatore nel concistoro che instradò la discussione che avrebbe poi portato al doppio Sinodo sulla famiglia del biennio 2014-’15. Quel Kasper che per anni, fin dai tempi di Giovanni Paolo II, aveva chiesto meglio e più di altri il via libera al riaccostamento dei divorziati risposati alla comunione; richieste sempre rispedite al mittente dal duo Wojtyla-Ratzinger. Quel Kasper che fu lodato dal Papa al primo Angelus pronunciato dalla finestra del Palazzo apostolico. Non una scelta neutrale, dunque. Ma una indicazione chiara, netta e ovviamente legittima della linea. Confermata dalla scelta dei padri di nomina pontificia scelti per l’assise sinodale: tecnicismi buoni per gli addetti ai lavori, certo, ma che dicono molto e che confermano che una linea programmatica c’è sempre stata.

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E così per il recente Sinodo sull’Amazzonia, affidato al cardinale Cláudio Hummes, da sempre convinto peroratore del via libera ai viri probati. Anche qui, scelte evidenti. Che poi i risultati abbiano deluso le attese di molti, con reazioni in qualche caso fuori dalle righe assai simili a quelle lette a suo tempo circa la mancata soppressione dello Ior, è la conferma che anche tra gli entusiasti sostenitori della linea caratterizzante il pontificato si era fatta  strada l’idea che oltre alla volontà ignaziana di “riformare le persone dal di dentro” ci fosse pure la determinazione di riformare la chiesa stessa in modo irreversibile. L’articolo della Civiltà Cattolica racconta perché il Papa ha detto no ai viri probati, ai cosiddetti preti sposati e a tante altre istanze emerse nelle settimane di discussione sinodale nell’Aula nuova dello scorso autunno. Spadaro riporta un appunto personale del Santo Padre condiviso con la rivista gesuita. Ebbene, a giudizio di Francesco, “a volte il ‘cattivo spirito’ finisce per condizionare il discernimento, favorendo posizioni ideologiche (da una parte e dall’altra), favorendo estenuanti conflitti fra settori e, quel che è peggio, indebolendo la libertà di spirito così importante per un cammino sinodale”. Così, si verifica “un’atmosfera che finisce per distorcere, ridurre e dividere l’aula sinodale in posizioni dialettiche e antagoniste che non aiutano in alcun modo la missione della chiesa. Perché ognuno trincerato nella ‘sua verità’ finisce per diventare prigioniero di se stesso e delle sue posizioni, proiettando in non poche situazioni le proprie confusioni e insoddisfazioni”. Nel dettaglio, in merito ai viri probati “c’è stata una discussione… una discussione ricca… una discussione ben fondata, ma nessun discernimento, che è qualcosa di diverso dall’arrivare a un buono e giustificato consenso o a maggioranze relative”. Ancora, il Papa scrive che “dobbiamo capire che il Sinodo è più di un Parlamento”. Il punto, sostiene il direttore della Civiltà Cattolica, è  capire “come si prende una decisione, della forma mentis e della necessità di un discernimento che sia veramente libero”.  Il magistero pontificio “valuta pure se il discernimento è stato realmente tale o è stato piuttosto una disputa”. 


Il problema, non proprio marginale, è che ogni assemblea sotto Francesco si è trasformata in una disputa mai risolta dal Papa. Ne sono una prova lampante le diverse interpretazioni dei documenti sinodali a seconda della conferenza episcopale presa in esame: comunione a tutti, comunione previo discernimento del confessore, comunione come si usava prima tanto non è cambiato niente. Viri probati problema solo rimandato, viri probati bocciati, viri probati in futuro ma solo per l’Amazzonia, viri probati in futuro per tutto il mondo (così i vescovi tedeschi). A seconda di chi leggeva le determinazioni papali, cambiava l’interpretazione. Un po’ lontani, verrebbe da dire, da “il vostro parlare sia sì, sì; no no”.

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Siamo sicuri che lasciare tutto in questa indeterminatezza sia non solo opportuno ma anche sano? Dire che “se non ci sono le condizioni il Papa semplicemente non procede senza però negare la validità delle proposte” non fa sì che più che lasciare aperta la discussione si crei ulteriore confusione? A guardare il ventaglio di interpretazioni su atti sinodali e il livello raggiunto dalla discussione, sembrerebbe di sì. Risultati pochi, caos tanto. Ed è proprio in queste condizioni che si affermano quei “conflitti devastanti tra ali” (per esempio, progressista o reazionaria) che Spadaro va giustamente deprecando. Nell’indeterminatezza, nella vaghezza di teologi scrittori giornalisti e professori che s’arrovellano per anni su una nota a piè di pagina d’una esortazione papale per capire se la riammissione dei divorziati risposati alla comunione è o non è possibile. Ed è arduo sostenere che in queste discussioni dovrebbe vedersi lo spirito più che il battibeccare in stile parlamentare: è una civiltà di uomini e non di santi.

 

 

Come si concilia poi l’affermazione secondo cui non c’è un programma del pontificato ben chiaro quando si sceglie di rinverdire i fasti della Ostpolitik applicandoli, pur con tutte le ovvie differenze d’epoca e di contesto, alla distensione con la Cina comunista? Non una parola su Hong Kong – ma molte sulle tensioni socio-politiche negli Stati Uniti, ad esempio – nulla sugli uiguri, nonostante due cardinali di santa romana chiesa, peraltro creati entrambi da Francesco, mons. Charles Maung Bo e mons. Ignatius Suharyo Hardjoatmodjo, abbiano accusato Pechino di commettere nei confronti di quella popolazione un genocidio. Sono scelte, non improvvisazione. Realismo politico direbbe qualcuno: per salvare i cattolici cinesi dal regime che fa sparire preti e vescovi e rimuove le croci dalle chiese perché deturpano lo skyline delle megalopoli locali, si accettano compromessi attraverso accordi segreti. Non v’è nulla di male: si sono sempre fatti, così come è già accaduto che ci sia una cooperazione tra la Santa Sede e i governi locali circa la nomina dei vescovi. Non è scandaloso, un buon ripasso di storia della chiesa calmerebbe qualche spirito ardente. Però ecco: qui, sulla Cina, un progetto c’è eccome e appare riduttivo sostenere che – sempre applicando il discorso del direttore della Civiltà Cattolica al dossier cinese – “il suo progetto è un’esperienza spirituale vissuta, che prende forma per gradi e che si traduce in termini concreti, in azione. Non un piano che fa riferimento a idee e concetti che egli aspira a realizzare, ma un vissuto che fa riferimento a tempi, luoghi e persone”.

 

 

E’ ancora attiva la spinta propulsiva del pontificato? domandava padre Antonio all’inizio del suo lungo articolo, sostenendo che è sbagliato rispondere affermativamente se si pensa che la spinta sia finalizzata solo a cambiare le strutture, l’organizzazione, la burocrazia. La riforma che ha in mente Francesco è altro e funziona solo se svuotata “da logiche mondane”. Forse, dovendo ribadirlo dopo sette anni di pontificato, significa che qualcosa è andato storto: o nella comprensione del modo di governare di questo Papa (modo, non stile) o nel fatto che effettivamente il pontificato  ha incontrato qualche ostacolo di troppo non previsto, e la spinta propulsiva ha subìto una battuta d’arresto.

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