Corteo di protesta a Portland (foto LaPresse)

Tech and the City

Con le app contro Trump

Michele Masneri

In California è tutto un firmare appelli e indignarsi all’aria aperta. Scende in piazza la protesta 2.0

San Francisco. Che annata magnifica per la partecipazione in America. Non c’è un giorno libero tra una “Women March” e un giro all’aeroporto in supporto a minoranze oppresse aviotrasportate, se muniti di laurea in Giurisprudenza. Il presidente Trump verrà forse ricordato nella storia o almeno nella cronaca come colui che riportò gli americani in piazza, e infatti soprattutto i papà e i nonni dei millennials, gli altrettanto famosi baby boomers, non si sentivano così in forma da un po’.

 

“Ci vediamo a Ocean Beach sabato prossimo per la manifestazione per l’impeachment”. “Non posso, devo fare i cartelloni per il sit-in di Santa Cruz”. Questi i discorsi che si sentono. In agenda, anche nazionale, una serie fittissima di appuntamenti: il 14 aprile tenersi liberi per il  Trump Tax Returns March (per vedere il famoso 740 del presidente, che sta diventando un tormentone inutile come le dieci domande a Berlusconi); il 29 aprile non prendete impegni, c’è la marcia per il Clima; quella della Scienza, stanno ancora decidendo la data. Soprattutto in California, è tutto un telefonarsi, firmare appelli, appendere manifesti, indignarsi all’aria aperta. Se il popolo va in piazza, i magnati del tech si apprestano a firmare un manifesto anti Trump, dopo le uscite sull’immigrazione del presidente; Sergey Brin, cofondatore di Google, sabato scorso si è unito alle proteste in corso all’aeroporto di San Francisco. “Sono qui perché sono anch’io un rifugiato”, ha detto. Il boss di Uber Travis Kalanick è uscito dal gruppo di consigliori del presidente cotonato dopo una campagna anche violenta con hashtag #deleteuber; non solo consigliori, ma anche gli autisti sono stati accusati di crumiraggio, perché a differenza dei tassisti non hanno aderito alla manifestazione all’aeroporto di San Francisco, continuando invece a fatturare (anche i boicottaggi sono tornati in grande spolvero).

 

Intanto Mark Zuckerberg di Facebook batte l’America in vista di una possibile discesa in campo nel 2020. Ma la base, la base che fa? La società civile californiana e non solo non si può organizzare certo come cinquant’anni fa; era la summer of love, era il 1967, tutti si sentono un po’ tornati ragazzini. Signore anche agée telefonano, “hai un posto in giardino? Vengo, dormo in macchina, così il giorno dopo procedo per la manifestazione a Santa Cruz!”. Mah. Comunque è chiaro che con tazebao e ciclostili non si va da nessuna parte, ed ecco dunque che Silicon Valley aderendo alla sua ragione sociale e al suo genius loci sta sfornando un po’ di sistemi molto tecnologici per coordinare la protesta.

 

Ecco per prima una applicazione che si chiama Countable, ed è una specie di Facebook dei parlamentari, o un Rousseau siliconvallico. Piacerebbe moltissimo infatti alla Casaleggio e anche ai suoi associati, poiché permette di spammare senatori e congressmen con le vostre idee, le vostre proposte, soprattutto i vostri video. Uno sceglie i temi politici di suo interesse (“Trump-Donne-Diritti-Politica estera”) e da quel momento il suo wall viene riempito di notizie che non sono solo notizie grezze, vengono invece spiegate bene agli elettori. Gli abbonati a quel punto hanno varie possibilità: “saperne di più”, per approfondire l’argomento, aggiungere un commento, che finisce nel “rullo” proprio come sotto un post di Facebook, e soprattutto “take action” cioè attivarsi, nello specifico possono mandare messaggi ai loro rappresentanti in Parlamento, che escono in automatico quando si dà la posizione Gps (per noi viene fuori la deputata Nancy Pelosi, vecchia gloria democratica di San Francisco). Basta premere l’apposito pulsante e si può registrare un filmato di massimo trenta secondi col proprio cellulare, che andrà a finire nell’incolpevole email del deputato o senatore.  Ogni membro di questo Facebook della società civile poi ha una propria bacheca, con i suoi follower, la sua attività, i temi che segue. Già definito “Il Tinder del disegno di legge”, ogni proposta del Parlamento vero viene prima votata qui: per esempio, in questi giorni, in evidenza un quesito: volete voi che la legge sulla protezione delle acque varata dal presidente Obama negli ultimi giorni del suo mandato sia ritirata? Sì, 913 voti, no 33.758. Quest’ultimo strumento, la votazione online, che può riguardare anche proposte di legge su iniziativa degli stessi cittadini, pare un po’ inquietante, perché quale politico vorrà impegnarsi su una decisione che è già stata bocciata dalla sua base elettronica? Siamo di nuovo al cyber-cinquestelle?

 

“Dall’elezione di Trump abbiamo avuto centosettantacinquemila nuovi sottoscrittori” dice al Foglio Eric Schmeltzer, portavoce di Countable, consulente politico, area Dem. “Ci sono stati 285 mila messaggi ai rappresentanti, c’è molta eccitazione, la gente ha voglia di partecipare” dice  ancora. Però non si tratta proprio di democrazia diretta. “Ah, i Cinquestelle, certo, li conosco, però le votazioni sulla nostra piattaforma non sono vincolanti, sono solo consultazioni simboliche. Il nostro obiettivo è quello di portare un maggior grado di trasparenza e informazione tra gli elettori”. Di Countable fanno parte “una sessantina di persone, con un nocciolo di tredici, basati a San Francisco, divisi tra repubblicani, democratici liberali, e ci teniamo molto alla diversità di visioni politiche di chi ci lavora, perché garantisce un bilanciamento”.

 

Quello della comunicazione con gli eletti è sempre un problema, specialmente in un paese con distanze fisiche enormi come gli Stati Uniti. Recentemente un lungo articolo sul New York Times Magazine raccontava l’enorme lavoro di smistamento di lettere cartacee indirizzate alla Casa Bianca: nell’Office of Presidential Correspondence (Opc) lavorano cinquanta persone fisse più trentasei stagisti e trecento volontari a smistare diecimila lettere al giorno; che poi vengono catalogate, indicizzate, e alla fine della filiera molto lunga mandate in lettura (una minima parte) al presidente. George Washington ne riceveva cinque al giorno (che arrivavano via cavallo) e le leggeva tutte, era una cosa semplice; poi con l’invenzione del battello a vapore è cominciata la proliferazione: 100 al giorno, a fine Ottocento; nasce l’ufficio corrispondenza. Con la Grande depressione, gli americani scrivono ancora di più  e Franklin D. Roosevelt riceve mezzo milione di lettere solo nella prima settimana di mandato. Nixon voleva leggere solo quelle positive. Clinton ne leggeva un campione ogni tanto. George W. Bush a blocchi di dieci, ma già “riscontrate” dal suo staff. Dieci anche per Obama, di notte, che appende quelle più significative. Trump non si sa, farà rispondere qualcuno del Ku Klux Klan direttamente, forse.

 

Adesso con la nuova app comunicare coi politici, se non col presidente, è più facile: “I messaggi arrivano ai rappresentati direttamente nella casella di posta elettronica, suddivisi per argomenti”, dice Schmeltzer. “Il mondo politico ci ha dato un ottimo feedback, lo apprezzano molto. Sostengono che soprattutto coi video è quasi come incontrare le persone dal vivo, e capiscono meglio qual è il clima dell’elettorato, e poi è meglio anche per loro che non stanno a leggere lettere dalla mattina alla sera. Non possono rispondere, però, il sistema non lo prevede”. “Countable è gratuita e lo sarà sempre”, garantisce. I soldi li prendono tramite Countable Campaign, un servizio a pagamento per imprese o istituzioni che vogliono mobilitare l’opinione pubblica verso i rappresentanti politici su temi specifici. La startup, dice Schmeltzer “è stata fondata nel 2014 come una piattaforma molto basilare che semplicemente prendeva in rassegna ogni legge allo studio del Parlamento, poi ci siamo resi conto che tante erano incomprensibili o non interessavano, e dunque è cominciato un lavoro editoriale”, continua. Proprio giovedì scorso è stata annunciata l’assunzione di Andrea Seabrook, giornalista parlamentare esperta e nota, come managing editor della piattaforma, che dunque come il suo gemello generalista Facebook si configura sempre più come medium a tutti gli effetti. “Lo ammetto – scrive Seabrook sul suo post di benvenuto – anch’io ero diventata una di quei giornalisti tromboni di Washington, ma adesso con Countable abbiamo la possibilità di creare un nuovo tipo di giornalismo semplice, affidabile e accurato, dietro il quale i politici non hanno possibilità di nascondersi. E’, insomma, quella che chiamiamo democrazia”.

 

Uscire dalla Rete e trovarsi di fronte la democrazia vera, però, è un altro discorso. Soprattutto negli Stati Uniti dove pochissimi poi tra una protesta  l’altra trovano il tempo di andare a votare. Adesso però sempre la tecnologia viene o tenta di venire in aiuto anche su questo fronte: ecco Turbovote, app che ti segue come un assistente di intelligenza artificiale Amazon o Google, e ti dice come registrarti nelle liste elettorali, e poi ti ricorda ogni volta le scadenze elettorali. Sviluppata dalla fondazione senza fine di lucro Democracy Works, insieme con l’Università di Harvard, Turbovote punta a riportare gli americani alle urne, perché un po’ come ha detto il presidente Obama in uno degli svariati discorsi d’addio, se non vi piace come vanno le cose, beh uscite fuori dai vostri tinelli e andate a cambiarle. “Abbiamo raggiunto un milione di utenti subito dopo l’elezione di Trump, e questo è un fenomeno molto interessante”, dice al Foglio Brandon Naylor, portavoce di Turbovote. “Perché normalmente dopo le elezioni la gente tende a perdere interesse nella partecipazione e nella politica; ma quest’anno le cose sono diverse; inoltre ci aspettano 40 elezioni comunali importanti, c’è un grande lavoro da fare”. Turbovote si è data un obiettivo ambizioso: “Vogliamo arrivare a una partecipazione dell’80 per cento; al momento siamo intorno al 60 per le presidenziali e al 40 per cento per le elezioni di mid term, mentre alle comunali vota solo il 20 per cento”, dice Naylor. Arrivare all’80 per cento “cambierebbe davvero la nostra democrazia rappresentativa”. “Per raggiungere questo obiettivo ci siamo alleati con alcuni dei marchi più significativi o innovativi del paese, con una campagna che si chiama Turbovote Challenge. Hanno aderito nomi come Snapchat, Airbnb, Instagram e Starbucks, che si impegnano a sensibilizzare soprattutto i giovani perché vadano a votare”, dice Naylor. “Alcune aziende si sono focalizzate sui propri dipendenti, altre sui loro clienti”. Così per esempio Snapchat ha mandato in onda una serie di “appelli”, video di dieci secondi con celebrità come Jared Leto o Jimmy Fellon, per registrarsi al voto; i giovani infatti hanno percentuali particolarmente basse: solo il 46 per cento dei cosiddetti millennials ha votato alle elezioni presidenziali del 2012, secondo una ricerca del Pew Research Center. Praticamente la stessa percentuale che ha la app sul telefono (sono il 41 per cento i ragazzi tra 18 e 34 anni di età che hanno Snap).

 

Tra gli adulti, invece, l’amministratore delegato del colosso del caffè Starbucks, Howard Schultz, noto capitalista progressista e inclusivo, punta sulle maestranze. Schultz, che ultimamente ha annunciato che assumerà nella sua azienda 10.000 rifugiati, l’anno scorso a primavera “ha chiesto a tutti i suoi 150.000 dipendenti di andare a registrarsi, e il risultato è stato il più grande aumento delle iscrizioni nelle liste elettorali della storia americana”, ci dice sempre Naylor.

 

Rimane il mistero su se e come abbiano poi votato i baristi riflessivi briffati dal padrone: forse sono tutti trumpisti nel segreto dell’urna; forse per questo Schultz vuole procedere al rimpasto, facendo un’infornata di rifugiati.

 

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