Juve, Inter, Milan e le altre

Dove vogliono andare i ribelli della Super League

Dodici club europei di calcio vogliono farsi un loro campionato a cui si partecipa non per meriti sportivi. I motivi? Soltanto economici

Giuseppe Pastore

A tarda notte gli auto-proclamati fondatori hanno ufficializzato il loro progetto: una competizione fuori dalla UEFA e dalla FIFA, che minacciano ritorsioni gravissime, fuori dal calcio come lo conosciamo da oltre sessant'anni

Cambia il calcio; e di conseguenza, cambia la vita. A tarda notte i dodici club auto-proclamati fondatori della Super League hanno ufficializzato il loro progetto: una competizione fuori dalla UEFA e dalla FIFA, fuori dal calcio come lo conosciamo da oltre sessant'anni. Un torneo da venti partecipanti: tre società italiane (Inter, Juventus, Milan), sei inglesi (Arsenal, Chelsea, Liverpool, Manchester City, Manchester United, Tottenham), tre spagnole (Atletico Madrid, Real Madrid, Barcellona), altri tre soci fondatori da ufficializzare (si fanno i nomi di Bayern Monaco, Red Bull/Lipsia e Porto), cinque qualificate secondo criteri ancora da definire. Gli ideologi sono tre: il presidente Florentino Perez e i vicepresidenti Andrea Agnelli e Joel Glazer, numero uno del Manchester United. Uno strappo feroce con le tradizioni e le abitudini di un intero continente, che rimette in discussione le fondamenta, i pilastri e l'architrave del calcio, la sua stessa natura: la competizione equa, il merito sportivo.

 

I motivi. Economici, soprattutto. Anzi, solamente: del resto la Super League, scrive il Milan nel comunicato ufficiale, “arriva in un momento in cui la pandemia globale ha accelerato l'instabilità dell'attuale modello economico del calcio europeo”. Inutile ripescare gli innumerevoli articoli sull'insostenibilità di uno sport a porte chiuse per un'intera stagione, con bilanci già disastrati da prima del Covid. Se ne esce solo con un aumento spaventoso delle entrate, che sarebbe garantito dalla Super League: per iniziare si parla di 350 milioni di euro come “bonus di benvenuto” (ma provenienti da chi?), poi si vedrà, a cominciare dall'enorme pentolone dei diritti televisivi (ancora da assegnare). Andrea Agnelli – che pure in questi mesi non si è rivelato un fuoriclasse della gestione finanziaria – aveva più volte fatto riferimento al football americano come modello di business a cui tendere: "La Champions vale 1,5 miliardi di diritti tv contro i quasi 7 della NFL, nonostante le ricerche dicano che su 2 miliardi di sportivi nel mondo, 1,6 sono tifosi di calcio e soltanto 150 milioni di football americano" (Università Bocconi di Milano, 12 gennaio 2016).

 

Le tempistiche. Non sono chiare. Al di là dei tempi dell'annuncio stesso, che va a terremotare la parte finale dei campionati e delle coppe europee, nella notte si sono sparse voci incontrollate su una partenza addirittura per agosto 2021, il che renderebbe priva di senso – per esempio – l'appassionante volata verso una Champions League che Inter, Milan e Juventus saprebbero già di non disputare. Nessuna società ha inteso sbottonarsi più di tanto nei comunicati ufficiali, rimanendo su un generico “il prima possibile”. È poi da verificare tutta la robusta questione dei possibili contenziosi legali, visto che per esempio i diritti televisivi delle tre Coppe 2021-2024 sono già stati assegnati (in Italia li ha presi Sky). Nel caso in cui si andasse a un muro contro muro non potremmo escludere alcuno scenario, compresa una paralisi che potrebbe durare anche mesi – scenario ovviamente ben poco gradito a chi ha forzato la mano per garantirsi più partite, più calcio, più denaro.

 

I punti oscuri. Tanti, tantissimi. Nei vari comunicati, le società giurano di voler continuare a competere nei campionati nazionali, il che entra in rotta di collisione con il bellicoso comunicato UEFA che minaccia l'esclusione delle 12/15 “ribelli” dai medesimi campionati. Ma esistono i fondamenti giuridici per imporre questa sanzione a un gruppo di aziende private che hanno formato una nuova lega privata? E quanto perderebbe di valore la serie A (o la Liga, o peggio la Premier League) senza le sue squadre più seguite? E ancora: come si incastra con le 38 giornate di campionato già garantite (anche qui sono già stati assegnati i diritti televisivi 2021-24, li ha presi DAZN) una competizione da 18 partite infrasettimanali assicurate a ogni partecipante? Niente turni infrasettimanali? Si parte ai primi di agosto? O forse – per un campionato spogliato di ogni interesse per discorsi che non siano lo scudetto e la zona retrocessione – bisogna pesantemente ripensare al formato, riducendo il numero delle squadre o magari introducendo i play-off scudetto? La Champions League sopravvivrà con le “migliori delle altre”, e dunque per l'Italia ci andrebbero Atalanta, Napoli, Lazio e Roma? E l'Europa League? E la neonata Conference League? E ancora: ci sono le basi giuridiche per vietare ai tesserati delle dodici “ribelli” di giocare con le rispettive Nazionali nelle competizioni sia UEFA che FIFA, come minacciato con il solito savoir faire di chi le sta provando tutte per proteggere la propria roccaforte di potere? Bisogna decidere in fretta: tra meno di un mese scattano i ritiri per gli Europei.

 

L'UEFA, la FIFA. “Non sono enti benefici”, vanno ripetendo in queste ore con una punta d'ironia. In effetti, proprio no: l'UEFA ha la grave colpa di aver propiziato questa spaccatura imponendo un Fair Play Finanziario più che pasticciato, fatto apposta per generare figli e figliastri, severissimo con i Paesi più periferici e bonario – per dirne due – con PSG e Manchester City, il che ha già allargato a dismisura la forbice tra i top club e il resto d'Europa: tradotto sportivamente, una fase a gironi di Champions da sbadigli e sette ottavi di finale su otto in cui non c'è stata la minima incertezza sulla qualificata (curiosamente, l'unica eccezione è stata la partita che ha riguardato la società di Andrea Agnelli). E la FIFA, che adesso parla di solidarietà, inclusività, integrità, ragioni morali ed etiche, non si è fatta scrupolo di dare per soldi il Mondiale 2022 in pasto a una dittatura che si sta facendo bella sulla pelle delle migliaia di operai-schiavi sacrificati in nome del Dio Pallone.

 

L'NBA, l'Eurolega. Il paragone Super League-NBA non ha molta ragion d'essere, essenzialmente perché l'NBA è un'astronave a parte, persino con un suo regolamento diverso da quello della FIBA (a proposito, chi arbitrerà le partite di Super League?), per non parlare delle logiche economiche e di player trading completamente diverse dal resto del pianeta. Più sensato l'accostamento con l'Eurolega, la massima competizione di basket per club europei, attualmente composta da diciotto squadre suddivise secondo un sistema misto di licenze pluriennali (undici club), inviti (due club) e qualificazioni dai campionati nazionali e dall'Eurocup, la seconda competizione ULEB (cinque club). Anche in questo caso volarono gli stracci, finché la FIBA, non riuscendo a opporre all'Eurolega una competizione di uguale appeal, fu costretta a prendere atto. Basketball is business, si scrisse allora. Perché lo stesso discorso non dovrebbe applicarsi allo sport più seguito al mondo? È così peregrino uno scenario in cui, tra una decina d'anni, anche la Super League avrà le sue divisioni, i suoi saliscendi e un bacino di 70-80 club?

 

Conclusioni. Leggeremo di società e presidenti che accuseranno altre società e altre presidenti di eccessiva avidità, come se le loro fossero organizzazioni no profit. Interverrà in tackle anche la politica – Macron e Boris Johnson hanno già aperto il fuoco. In realtà la rivoluzione, quella vera, riguarderà soprattutto noi tifosi. Chi ama lo sport non può reagire a questa “cosa” senza un'ancelottiana alzata di sopracciglio – senza timore di affondare le mani nella retorica, è una rivoluzione che scuote nelle fondamenta non solo le istituzioni del calcio che conosciamo da oltre sessant'anni, ma anche i nostri stessi animi di bambini poi diventati ragazzi poi diventati adulti nel sogno fanciullesco di vedere il Torino l'Atalanta il Napoli la Lazio la Roma il Parma il Verona (eccetera) scalare la piramide del calcio europeo. Su che basi viene brutalizzata la totalità delle società calcistiche europee, tranne dodici/venti, e le loro affezionate tifoserie? Su stime economiche, sicuramente fondate ma impalpabili, di travolgenti raccolte di danaro provenienti dalle Americhe o dall'Asia, dove Milan, Arsenal o Manchester United sono tifate a prescindere dal fatto che siano diventate periferia del grande calcio da un decennio? E se questo gruppo di intraprendenti Gordon Gekko avesse sopravvalutato l'appeal di ripetuti Tottenham-Lipsia o Arsenal-Atletico Madrid di mercoledì sera autunnali? E se l'entusiasmo nascondesse disperazione? O forse la Super League è davvero l'unica opportunità disponibile in questi tempi di crisi? O magari adesso, rinfoderate le sciabole, verrà il tempo della mediazione, degli sherpa incaricati di ridisegnare lo scenario comune. “Perché nel tempo cambia tutto, lo sai/e cambiamo anche noi/e cambiamo anche noi”, diceva il poeta. Certamente viviamo tempi fragili. Ancora per qualche giorno, concedeteci il diritto di non sapere bene come pensarla.

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