Ulrich Mühe in una scena del film “Le vite degli altri”

Il caso Consip ci ricorda che il mondo dell'informazione è parte del problema

Luciano Capone

Da Berlusconi a Crocetta passando per Azzollini. Cosa succede in Italia quando le intercettazioni fake finiscono in prima pagina? Nulla

Roma. I pm romani Paolo Ielo e Mario Palazzi, riesaminando gli atti dell’indagine Consip, hanno scoperto che il capitano dei carabinieri del Noe e braccio destro del pm Woodcock Gianpaolo Scafarto è autore di falsi che, nelle parole da usate dal carabiniere nell’informativa, consentivano “di inchiodare alle sue responsabilità Tiziano Renzi”. La svolta nel caso Consip, con l’accusa al capitano Scafarto di aver manipolato le indagini e in particolare il contenuto di un’intercettazione per far convogliare indizi e sospetti sul padre di Matteo Renzi, ha suscitato notevole scalpore e inquietudine per i metodi sciatti se non criminali con cui gli inquirenti possono costruire le prove in un’inchiesta. Ma per i media questa vicenda dovrebbe essere l’occasione per fare un’autocritica e preoccuparsi anche dei metodi usati dagli operatori dell’informazione.

 

Il caso Consip, con le fughe di notizie, le intercettazioni manipolate e i foglietti con le iniziali che diventano “pizzini” con nomi e cognomi, è un caso da manuale del funzionamento del circo mediatico-giudiziario. Un meccanismo alimentato prevalentemente dagli atti delle indagini, non sottoposti ad alcun controllo di legittimità e veridicità come accade nelle aule di tribunale. Il processo mediatico e la sua gogna hanno una vita autonoma rispetto al processo penale. I giornali sono molto rapidi a emettere sentenze che producono immediatamente i loro effetti, e poco importa se quelle condanne sparate in prima pagina si basano su intercettazioni false o mai esistite, indagini sbagliate, testimonianze farlocche. Le sentenze mediatiche non solo producono immediatamente i loro effetti, ma sopravvivono anche quando la verità accertata è un’altra.

 

Ancora oggi la stragrande maggioranza della popolazione italiana e mondiale è convinta che Silvio Berlusconi abbia detto in un’intercettazione che Angela Merkel è una “culona inchiavabile”. Come ha spiegato più volte Filippo Facci quell’intercettazione attribuita all’ex premier dal Fatto quotidiano non esiste e non è mai esistita, non essendo presente in nessuna delle conversazioni trascritte dai pm di Bari. A questa verità si può obiettare solo con la logica di Marco Travaglio, secondo cui l’inesistenza dell’intercettazione è indimostrabile: “Che non esista, nessuno può dirlo con certezza neppure oggi: potrebbe benissimo esistere, ma essere stata stralciata dai pm baresi”. Che è come dire che nella testa di Travaglio potrebbe benissimo esserci un criceto invisibile a chiunque e con qualsiasi mezzo: che non esista, nessuno può dirlo con certezza.

 

E lo “scoop” dell’Espresso con l’intercettazione di Rosario Crocetta? “Lucia Borsellino va fatta fuori, come suo padre”, avrebbe detto secondo il settimanale a Crocetta il suo medico Matteo Tutino. Secondo l’Espresso il presidente della regione Sicilia avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni per essere stato zitto rispetto a quella frase che offendeva la memoria del magistrato Paolo Borsellino, ucciso da Cosa nostra, e sua figlia. Ma neppure quella intercettazione è mai esistita, non è in alcun atto giudiziario della procura di Palermo né l’Espresso ha mai dimostrato di esserne entrato in possesso.

 

C’è poi il caso del senatore Antonio Azzollini, di cui la procura di Trani chiese l’arresto nell’inchiesta sulla casa di cura Divina Provvidenza. Secondo l’accusa Azzollini avrebbe preso il controllo dell’istituto facendo pressioni e minacciando le suore. I media titolarono con una frase, virgolettata e inequivocabile: “Da oggi comando io, se no, vi piscio in bocca”. Ma neppure quell’insulto era una prova indiscutibile. Non era un’intercettazione, bensì una frase ascoltata da un testimone che era presente in una stanza accanto a quella in cui avrebbe fatto irruzione Azzollini: “L’ episodio si era verificato il 2006, 2007, 2008 – dice il teste – Cioè, non ricordo bene l’anno, però è stata una stagione intermedia, non era né caldo né freddo”. Mentre i media sparavano gli indizi come condanne, il Senato, che aveva letto le carte, respinse la richiesta di arresto di Azzollini. Stessa conclusione a cui poi sono arrivate la Cassazione e il riesame, che hanno revocato gli arresti segnalando la scarsa credibilità della testimonianza. Non ha insegnato nulla il caso di Ilaria Capua, la virologa e ormai ex deputata di Scelta civica, sbattuta in copertina dall’Espresso come “trafficante di virus” sulla base di indagini piene di errori, fatta da chi non aveva alcuna competenza di questioni scientifiche.

 

Occuperebbe troppo spazio aprire il capitolo Massimo Ciancimino, il superteste del processo sulla “trattativa stato-mafia”, interpellato come un oracolo dai giornali su papelli, signor Franco e altre “rivelazioni” tarocche.

La giustizia italiana mostra gravi patologie, ma il giornalismo non sta tanto meglio.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali