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Cinque questioni da non sottovalutare sulla straordinaria crisi catalana

Rocco Todero

Quando cominceremo a parlare seriamente degli interrogativi che arrivano da Barcellona?

Nonostante le legittime preoccupazioni che suscita, la crisi catalana potrebbe rappresentare fonte di grandi opportunità perché dovrebbe consentire di rimettere al centro del dibattito pubblico alcune questioni politiche, costituzionali ed economiche che troppo a lungo sono rimaste nell’ombra negli ultimi decenni.
Prima questione. Il sommovimento della Regione spagnola ha mostrato come porzioni non indifferenti di cittadini desiderino rimodulare gli assetti costituzionali che hanno rappresentato sino ad ora le fondamenta della convivenza civile all’interno degli Stati nazionali.

Il fenomeno non deve necessariamente essere visto con soverchia preoccupazione. Le costituzioni rappresentano documenti storici ai quali non è realistico assegnare la funzione di cartello stradale che segnala la “fine della storia”. Forse è esagerato condividere quello che diceva Thomas Jefferson, e cioè che ogni generazione ha il diritto di darsi la Costituzione che più gli aggrada, ma non è nemmeno pensabile raffigurare le carte costituzionali alla stessa stregua di intangibili totem da imporre senza battere ciglio a tutte le generazioni successive che vivono tempi profondamente diversi rispetto a quelli che hanno respirato le popolazioni che le hanno sottoscritte.

Sotto altro punto di vista la questione catalana consente di verificare la capacità di una reazione liberale e democratica delle società moderne davanti a presunte eresie che scuotono le certezze inculcate per anni dal sistema culturale prevalente nella mente di milioni di individui.

La capacità di sapere "trattare" con dottrine scandalose è l’abilità principale che dovrebbero possedere le società complesse e pluralistiche e le elites che si candidano a guidarle. L’intelligenza di misurare le dimensioni delle forze che sbandierano pensieri non convenzionali e di soppesare le possibili conseguenze a lungo termine di un’ostentata indifferenza verso questi fiumi carsici è una dote imprenscindibile per evitare degenerazioni irreparabili. In Spagna forse qualcosa in questi decenni è andato storto.

Naturalmente è necessario avere un’idea, in premessa, dell’entità dei fenomeni che scuotono le nostre solide certezze e quando non è possibile fare appello all’infallibile intuito di veri statisti (oggi sempre più introvabili) sarebbe comunque opportuno permettere la conta, ad esempio anche ai soli fini consultivi, di coloro che stanno coltivando un’idea realmente eversiva dell’ordine costituito.

Seconda questione. L’importanza da attribuire a fenomeni come quello catalano e l’attenzione da dedicare in generale a questioni simili non dipende esclusivamente dall’entità che mostrano in esito allo svolgimento di competizioni elettorali. Una minoranza consistente (il 40%, il 45%, ma anche il 35%) può già rappresentare un problema cui porre adeguata attenzione e dedizione ancor prima che diventi espressione di una maggioranza consolidata. Ascoltare il gorgoglìo dei rivoli che scorrono nel sottosuolo  ed essere capaci d'incanalarli verso direzioni gestibili, prima che si trasformino in una cascata dall’energia cinetica incontenibile, sono ulteriori qualità necessarie che appaiono tuttavia essere mancate nella politica spagnola. L’esempio di quanto sta accadendo nella penisola iberica dovrebbe servire da ripasso per le classi dirigenti che svernano in giro per l’Europa.

Terza questione. La giustizia distributiva territoriale, le modalità e le dimensioni della ridistribuzione delle risorse pubbliche che lo Stato effettua all’interno del suo territorio sulla base del principio di solidarietà (e non solo di esso per la verità), rappresentano temi attorno ai quali la frattura costituzionale sembrerebbe essere più profonda. Gli esempi sono numerosi. Sottovalutarli, respingerli aprioristicamente come manifestazioni di egoismo tribale o, peggio, dileggiarli, non è la risposta adeguata alle degenerazioni dello Stato sociale che quelle rivendicazioni mettono in evidenza.

Quarta questione. Le richieste di autonomia ed indipendenza non sono tutte uguali. Occorre distinguere l’indipendentismo che rivendica dallo Stato un’organizzazione più liberale all’interno della quale il riconoscimento delle libertà individuali sia il più ampio possibile, da quello di matrice comunitarista che sponsorizza, invece, il trasferimento dell’individuo da un’ampia comunità statale governata dal principio di maggioranza ad una più piccola (e maggiormente identitaria) dove la persona rimane tuttavia soggetta ad una democrazia totalizzante e per di più a carattere marcatamente sociale.
La presenza del partito comunista all’interno del fronte catalano ha alienato (spesso a ragione) molte simpatie di possibili alleati liberali e liberisti. L’eccessiva contaminazione della sinistra nello scacchiere indipendentista non elimina, tuttavia, la questione di fondo: gli individui hanno diritto di battersi per potere vivere all’interno di organizzazioni sociali che consentano la più ampia espressione della libertà personale?

Quinta ed ultima questione direttamente ricollegabile alla precedente. Nelle democrazie sufficientemente liberali l’utilizzo della forza è opportunamente relegato, da un lato, al grado di ultima ratio a disposizione del potere costituito e, dall’altro, a divieto assoluto per qualsiasi altro soggetto che non ne sia autorizzato espressamente dalla legge. Ma per evitare che le spinte dal basso, quando assumono particolare consistenza, degenerino in reazioni incontrollate è necessario che anche le Costituzioni prevedano meccanismi di modificazioni non eccessivamente rigidi. Ancora una volta la questione catalana è un caso esemplare.
La crisi spagnola è, dunque, una straordinaria opportunità. Quando ne vogliamo cominciare a parlare seriamente?

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