Un numero da ricordare per capire meglio l'Italia: 0,3 per cento

Redazione

Al direttore - Sono rimasto colpito dalla vicenda dei cinquantacinque arresti (e novantaquattro indagati) dell’ospedale Loreto Mare di Napoli. Non stupisce il fatto che alcuni, evidentemente nella possibilità di farlo, non lavorino; ormai notizie di questo genere non fanno più notizia. Colpisce semmai la quantità di dipendenti “furbetti”. Ciò che mi domando è: quanto denaro spende lo stato per prestazioni lavorative che non hanno luogo? Dato che ormai notizie di questo genere sono all’ordine del giorno, è possibile fare una proiezione statistica su quante ore di lavoro e quindi a quanto ammonta la somma di denaro persa dall’erario? Perché si parla tanto di stime su evasione fiscale e lavoro nero, ma di “non lavoro” non se ne parla proprio, almeno in questi termini.

 
Umberto Cesarotto

 

La scorsa settimana la Commissione europea ha presentato un rapporto utile per fotografare lo stato dell’economia italiana. Alla voce produttività si legge quanto segue: tra il 1995 e il 2015 in Italia si è registrato un aumento al tasso medio annuo dello 0,3 per cento contro una media Ue dell’1,6 per cento. Una volta esaurita la giusta indignazione per i furbetti del cartellino sarebbe utile indignarci per cose serie. Quanto lavoriamo. Come lavoriamo. Quanto produciamo. Se l’Italia non cresce come potrebbe e come dovrebbe in fondo è anche per questo, no?


Al direttore - Ieri in un’intervista a Repubblica Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia del Pd al Senato, ricordava che iscriversi a un partito è vietato ai magistrati anche in aspettativa. E che fa Donatella Ferranti senatrice del Pd? Il magistrato in aspettativa. Però per lei è diverso, ha precisato, perché rispetto a Michele Emiliano non è mai stata iscritta al Pd. Adesso il punto più che giuridico diventa politico: voleva il Guardasigilli del Pd la conferenza programmatica. Bene, ci vogliono 5 minuti per farla: il Pd può permettere a non iscritti al Pd di candidarsi nelle sue liste? E permette a un magistrato di diventarne il suo segretario? E se deve nominare il presidente della commissione Giustizia chi sceglie un iscritto o un magistrato?

 
Annarita Digiorgio

 

Non so come finirà. So però che a 25 anni da Tangentopoli abbiamo: un magistrato che fa il sindaco di Napoli; un magistrato che fa il presidente della commissione Giustizia al Senato; un magistrato che fa il presidente del Senato; un magistrato che potrebbe candidarsi alla guida della regione Sicilia; un magistrato che, dopo aver fatto il sindaco di Bari, da governatore della Puglia si candida a guidare il più grande partito della sinistra italiana; un magistrato (Imposimato) più volte indicato come perfetto presidente della Repubblica da un partito che è diventato più il portavoce delle procure che dei cittadini. Il problema non è, come dice Davigo, che i magistrati non dovrebbero fare politica perché non sono capaci. Il problema è che i magistrati non dovrebbero fare politica perché facendo politica contribuiscono ad alimentare un sospetto che forse è qualcosa più di un sospetto: l’utopia della terzietà universale del giudice. E se un giudice o un magistrato si mette a fare politica non è che diventa un politico dall’oggi al domani. Si legga Sabino Cassese sul Foglio di oggi: “Un magistrato dovrebbe essere e apparire un sacerdote della legge”. Chiaro?


Al direttore - Negli ultimi tempi, si dibatte di “patriottismo europeo” (vedi Giuliano Ferrara) di contro a populismo e sovranismo nazionalisti. Confesso che fa piacere constatare l’uso del concetto di patria – molto caro al maggior filosofo italiano del novecento, Benedetto Croce – nel momento stesso in cui urge un rilancio storico ed etico dell’Europa. Il filosofo del neoidealismo italiano ci consente, tra le altre cose, di chiarire una distinzione concettuale e pratica tra patria e nazionalismo. In un saggio del 1943, prendendo a riferimento gli effetti nefasti dei nazionalismi degli anni Trenta del Novecento, Croce scrive: “L’amore della Patria fu [...] soppiantato dal cosiddetto nazionalismo [...] cosicché la ripugnanza sempre crescente contro il nazionalismo si è tirata dietro una sorta di esitazione e di ritrosia a parlare di ‘patria’ e di ‘amor di patria’. Ma [...] l’amor di patria deve tornare in onore, appunto contro il cinico e stolido nazionalismo, perchè esso non è affine al nazionalismo, ma il suo contrario” (B. Croce “Una parola desueta: l’amor di patria”). Può esserci, dunque, anche un amor di patria europeo? Sì, purché abbia i lineamenti della ragione storica e del realismo politico quali fonti per un riformismo europeo possibile sul terreno della libertà individuale e di mercati aperti. Ma le parole di Croce dicono qualcosa di diretto anche all’Italia: ovverosia che la migliore tradizione del realismo politico italiano non è – né fu mai – un pensiero provinciale, ma sempre aperto a un orizzonte ideale europeo. Credo che quel realismo politico possa essere ancora oggi una fonte di ispirazione, nei modi storici concreti della nostra generazione, per un patriottismo europeo che resti una lotta su due fronti: politico ed etico.

 
Alberto Bianchi

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