Come una schiava

Paola Peduzzi

Lola e le notti in lavanderia, tra i panni sporchi. Vita di una donna non libera, che voleva solo essere madre

Lola è il primo ricordo, i primi occhi che si sono soffermati a fissare altri occhi, gli occhi di un bambino che poi per tutta la vita ha tenuto stretto quello sguardo, inseguendolo, ritrovandolo, riconoscendolo. E’ lo sguardo di una donna che ti vuole bene, e non importa che sia la mamma o la nonna o la babysitter, è l’occhio di chi ci tiene, di chi non si distrae. Solo che Lola era una schiava. Una schiava nell’America del Dopoguerra, segreto indicibile di una famiglia di immigrati filippini che cercava di costruire il proprio sogno americano in giro per il paese, pochi soldi, molti figli, troppi affanni, e poi Lola, la schiava.

 

Alex Tizon ha raccontato sull’Atlantic la storia di Lola: lui è nato nel 1959, è morto lo scorso marzo, prima di sapere che Lola sarebbe diventata la storia di copertina del numero in edicola. E’ di Alex Tizon il primo ricordo di quegli occhi, è suo il viaggio nelle Filippine per riportare le ceneri di Lola alla sua famiglia d’origine, dopo quasi settant’anni da quando Lola era stata “regalata” alla madre dal nonno, che aveva perso la moglie e aveva questa ragazzina in casa di cui non sapeva occuparsi. Così prese un’altra ragazzina diciottenne, le promise vitto e alloggio, nessun compenso, ma un tetto e una missione. Lola non sapeva che quel suo lasciarsi regalare, per scappare da una famiglia indigente che voleva maritarla a uomini anziani e inguardabili, avrebbe segnato la sua vita, non sapeva che sarebbe diventata schiava e che lo sarebbe stata sempre. Nelle Filippine c’era questa usanza, le ragazze e i ragazzi come Lola erano – sono – chiamati “utusans”, che significa “gente che prende ordini”. Ma da quella ragazzina che aveva ereditato dal padre il piglio imperioso e ruvido Lola fece molto di più che prendere ordini, prese anche dodici frustate al posto suo. La bambina aveva detto una bugia, e al padre deciso a punirla bisbigliò: le prende Lola per me, le frustate. E Lola le prese, senza dire una parola, tenendosi forte al tavolo del tinello. Quando Tizon le chiese, molti anni dopo, se fosse vera quella storia, Lola disse: “Sì, andò così”, e la tristezza nel suo sguardo, assieme ai gemiti animaleschi che Tizon sentiva dalla lavanderia, è rimasta attaccata a Tizon come uno sfregio che non guarisce più.

 

Quando la madre e il padre di Tizon decisero di trasferirsi in America, portarono Lola con sé: lei non voleva, chiese di rimanere nelle Filippine – avrebbe chiesto tante altre volte di tornare a casa, senza mai riuscirci, anzi, venendo rimproverata: lo vedi che non abbiamo soldi, che ingrata che sei, come ti permetti di avanzare pretese? – ma partì e rimase sempre, il punto di riferimento di cinque bambini, l’obiettivo principale delle ire dei due genitori, pronti a sgridare, urlare, offendere. Tizon e i suoi fratelli invece amavano Lola, che li accudiva, li ascoltava, li proteggeva, senza imparare una parola di inglese, senza conoscere nessuno, dormendo nella lavanderia tra i panni sporchi, senza mai avere uno stipendio. La schiava. A tredici anni, Tizon per la prima volta difese Lola davanti a suo padre: lui la stava sgridando perché una delle bimbe non aveva mangiato. Tizon disse: mia sorella non aveva fame. Cosa fai, adesso difendi Lola?, chiese il padre furioso. Mia sorella non aveva fame, ripeté Tizon, e sentiva le lacrime che gli salivano negli occhi e la bocca tremare, ma rimase lì, fermo. Fu la prima volta che Tizon difese Lola, ma fu anche la prima volta che sua madre provò gelosia per Lola: volete più bene alla schiava che a me, e questa madre alle prese con tanti lavori e molta infelicità non sarebbe mai riuscita a curare la gelosia, né a liberare Lola.

 

Il padre lasciò la famiglia, e a quel punto Lola si prese cura anche di “Mom”, continuando a ritenerla la prima responsabile brutale della schiavitù, e allo stesso tempo consolandola, abbracciandola forte, quando crollava piangendo per l’uomo fuggito. La schiava era la mamma anche di questa donna che una madre non l’aveva mai avuta, era la mamma di una famiglia che, nonostante i sensi di colpa dei bambini che crescevano e capivano ma non facevano nulla per liberarla, le aveva rubato la terra, i sogni, l’amore.

 

Quando il prete chiese alla madre di Tizon, morente, se voleva chiedere perdono a qualcuno, la madre scrollò le spalle, poi appoggiò la mano sulla testa di Lola, senza dire una parola. Tizon portò Lola a vivere con sé, con la sua famiglia, le diede uno stipendio e le disse: fa’ quello che vuoi, non c’è bisogno che lavori, non c’è bisogno che tu faccia nulla. Siamo insieme, siamo una famiglia. Ma Lola non conosceva niente al di fuori della propria schiavitù, non aveva amici, non aveva conoscenti, non sapeva usare il bancomat, non sapeva guidare, non sapeva gestire una vita in cui non riceveva comandi. Così continuò a pulire, a occuparsi delle bambine di casa, a fare il bucato, a mangiare in piedi di fretta gli avanzi della cena, senza sedersi a tavola, ma aveva uno sguardo nuovo, che Tizon non aveva mai visto, ma che ancora una volta riconobbe: lo sguardo di una donna che, avendo finalmente la libertà di fare quel che voleva, faceva la mamma.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi