Totò Riina il giorno del suo arresto

La sentenza della Cassazione su Riina deve farci riflettere sul 41 bis

Piero Tony

C’è una differenza sostanziale tra il discutere di “morte dignitosa” e di una norma emergenziale ormai superata

Una sentenza che merita di essere analizzata e commentata con attenzione massima, quella del 22 marzo con la quale la Corte di Cassazione ha ritenuto tra l’altro, in relazione a una richiesta di revoca del 41 bis per differimento pena rigettata nel 2016 dal tribunale di sorveglianza di Bologna, che Riina avrebbe diritto di “morire dignitosamente”. Sì, così, apertis verbis: diritto di morire dignitosamente. Senza tentare di salvare capra e cavolo – come qualche volta ha fatto la magistratura, comprensibilmente, per destreggiarsi nel negozio di cristalleria: per esempio per Luciano Liggio e Bernardo Provenzano (entrambi gravemente malati, finirono i loro giorni in stato di detenzione) analoghe domande di revoca del 41 bis vennero respinte asseritamente nel loro interesse: il ritorno al domicilio o in reparti comuni avrebbe comportato sia rischio per il loro diritto alla salute a causa di promiscuità e sospensione delle cure in corso, sia il rischio di possibili rappresaglie per “il valore simbolico” dei loro trascorsi criminali.

   

Questa volta invece la Suprema Corte ha suscitato un vespaio di polemiche: “Basiti di fronte a quello che ha stabilito la Cassazione”, si sono dichiarati i famigliari delle vittime della strage di via dei Georgofili di Firenze. “C’è un diritto del singolo che va salvaguardato, ma c’è anche una più ampia logica di giustizia di cui non si possono dimenticare le profonde e indiscutibili ragioni”, con un po’ fumosa prudenza ha tentato di chiosare don Luigi Ciotti. “Va assicurata la dignità della morte anche a Riina ma senza trasferirlo altrove”, ha detto Rosy Bindi, e così Alfredo Galasso, i fratelli Rita e Nando Dalla Chiesa, e tanti altri che rilevano come il Riina si sia mostrato pericoloso finché le forze glielo hanno consentito, non si è mai pentito dei commessi misfatti, non ha mai chiesto perdono alle vittime.

   

Credo invece che la Cassazione abbia fatto nient’altro che il proprio sacrosanto dovere nel pretendere, dal tribunale di sorveglianza di Bologna che aveva respinto la richiesta di scarcerazione, un po’ più di motivazione su circostanze che proprio secondarie non sono. Soprattutto visti i “trattamenti inumani e degradanti” contestati ripetutamente dalla Cedu al nostro paese, anche in relazione all’art. 41 bis, e la ravvisabilità o meno, nella fattispecie, di condizioni “al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata”, o comunque tali da giustificare l’interrogativo: “Se il suo stato di detenzione comporti una sofferenza e un’afflizione di tale intensità da andare oltre la legittima esecuzione di una pena”. La sentenza è pertanto apprezzabilissima, con due soli appunti, proprio a voler essere pedanti.

   

Il primo è di natura lessicale. Il diritto a morire “dignitosamente” a me sembra, al di là delle intenzioni, davvero un fuordopera quasi di cattivo gusto. Avrei scritto “fuori dal carcere”, o qualcosa del genere. “Dignità è condizione e qualità di chi, di ciò che è degno di rispetto e onore. Dignitoso è di persona che ha dignità, che si comporta con dignità”, spiega qualsiasi vocabolario. E Nando Dalla Chiesa ha precisato che “mai Totò Riina potrà morire con dignità, diciamo in libertà ovvero dignitosamente per noi, per la nostra democrazia”.

  

   

Il secondo appunto da fare è più di sostanza (anzi, è solo una piccola perplessità di un inguaribile rompiscatole, un tignoso “però” insomma). Premesso che le condizioni di vita di chi è sottoposto al 41 bis a me e a molti sono sempre parse incompatibili sia con quanto dispone il terzo comma dell’art. 27 della Costituzione (le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato) sia con i numerosi pronunciamenti della Cedu circa l’illegittimità di trattamenti inumani e degradanti. Premesso inoltre che, nonostante la sottoposizione al 41 bis, nei centri clinici delle relative strutture carcerarie il condannato può notoriamente disporre di tutte le cure necessarie, financo quelle palliative se necessario. Tutto ciò premesso, per prima cosa non è proprio dato da comprendere perché la Suprema Corte abbia diffuso la propria attenzione sul valore di una morte “dignitosa” e non si sia invece concentrata su quello che più o solo dovrebbe importare ai fini della decisione, cioè sulla pericolosità del capomafia; pericolosità che – pare manchi un sufficiente e motivato approfondimento dei giudici bolognesi – potrebbe essere cessata per via di condizioni di salute asseritamente preagoniche ma, se non così precarie, potrebbe anche essere rimasta intatta dato lo spessore insidiosamente carismatico del criminale. Né davvero si comprende perché il diritto alla dignità – o meglio, il diritto a un trattamento non degradante – dovrebbe sorgere al momento della morte e non invece caratterizzare tutto l’arco di vita, a meno che non si pensi a una sorta di cerimoniale, di maquillage in vista del un giudizio divino (con il rischio dell’ossequio dei devoti attorno al letto). Né si comprende perché l’indiscutibile sensibilità della Suprema Corte – in ordine ai trattamenti e all’affievolimento di diritti previsti dal 41 bis e criticati, tra i tanti e più volte, dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti – si sia ravvivata al pensiero non della vita ma della morte del boss, a tal punto da considerare vanificabile il peso di un ergastolo, anzi di sedici ergastoli. Non risulta, la Suprema Corte, mai essersi culturalmente animata ed espressa contro l’istituto stesso, tout court, a fronte di un’ordinaria amministrazione di codesto art. 41 bis giudicata dal suddetto Comitato europeo tanto severa in rigore e isolamento da provocare sovente “alterazioni delle facoltà sociali e mentali spesso irreversibili” (Relazione ispettiva, 1995).

   

Sarebbe stata un’occasione per parlarne, o farne un piccolo accenno, o almeno un’allusione. La realtà è che il 41 bis forse serve non solo a impedire comunicazioni e collegamenti tra capi e criminali in libertà, ma, di fatto (ossia non ufficialmente, visto che la vigente legge lo vieterebbe) a rendere più afflittiva la pena. Un male necessario, come più di una volta la Corte costituzionale ha accennato incidentalmente. Una norma introdotta più di trent’anni fa (L.10.10.1986, n.663 ) intitolata con tutta franchezza “Situazioni di emergenza” che esordisce così: “In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza”. Una norma aggiornata, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, per esasperazione e paura sacrosante, ma che nel sistema normativo costituisce una vistosa smagliatura.

   

Da ciò la tensione tra il giudice di legittimità e i famigliari delle vittime di un boss con sulle spalle sedici ergastoli per duecento omicidi. Tensione sana e civile che, quasi richiamando il mito di Antigone, esalta sia l’affettività sia la giurisdizione sia i sottesi contrasti.

  

La realtà è che può non essere popolare parlarne – ci si rende ben conto – perché abolizione di ergastolo e 41 bis era quello che pare pretendessero allora i capimafia per smetterla con le stragi. Impopolare come la questione della separazione delle carriere, in quanto immaginata all’epoca dal piduista Gelli. Nonostante siano ormai ritornelli, hanno il loro peso. Ma basta per restare in silenzio e non dire che il 41 bis vissuto da Riina dal 1993 a oggi non è gnoseologicamente cosa molto diversa dalla pena di morte e che, dopo oltre trent’anni, l’emergenza potrebbe essere cessata? Basta per non dire che un’unica carriera tende a vanificare lo spirito e le dinamiche di un processo accusatorio?

  

  

 

E’ umano. Di solito chi è vittima, o legato a essa, non si augura che il carnefice venga pazientemente rieducato ai sensi dell’art. 27 della Costituzione. Ma che il carnefice possa patire al più presto le stesse sofferenze. Ecco da dove è nata quella smagliatura normativa, ecco come è sorta quella tensione tra legalità ed emozioni, ossia tra Suprema Corte e chi ha sofferto. Nelle aule viene chiamata funzione retributiva della pena, ma con tono sommesso, perché sa di vendetta e la vendetta, da tempo – con una magistratura che operi efficientemente ne cives ad arma veniant – non è più considerata reazione corretta.

  

E allora? Preso atto che la Cassazione ha ritenuto solo una insufficienza di motivazione e non ha disposto alcuna scarcerazione, allora credo che, con la normativa vigente e presidi sanitari adeguati e fatta salva la possibilità di più motivati approfondimenti su pericolosità e compatibilità della sua salute con il regime carcerario, Riina non possa pretendere premi ma debba accettare di continuare a espiare in carcere – e non tra la sua gente – gli ergastoli a lui inflitti. E credo si debba onorare terzietà e autorevolezza della Suprema Corte pur partecipando a dolore e indignazione di chi ha sofferto. Ma, nel contempo, penso ci si debba anche augurare che il legislatore possa un giorno decretare la fine – o almeno l’alleggerimento – di rimedi emergenziali forse borderline rispetto al dettato costituzionale. Speriamo. Nonostante il mio giornalaio non perda occasione per dire che purtroppo la mamma delle emergenze è sempre incinta.

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