Lo Stato di diritto vale anche per Totò Riina

Rocco Todero

Se abbiamo ancora fondato motivo di temere l’ex capo dei corleonesi meritiamo di andare all’inferno insieme a lui

E’ comprensibile che la ventilata possibilità di riconoscere a Totò Riina la sospensione della pena carceraria per motivi di salute abbia suscitato reazioni di stizza e di grave sdegno.

 

La caratura del personaggio criminale, la memoria ancora viva delle orrende stragi di cui è stato riconosciuto responsabile ogni oltre ragionevole dubbio, non consentono di accettare a cuor leggero l’idea che il sicario di Falcone e Borsellino (tra i tanti della cui morte il capo dei capi è stato ritenuto mandante ed esecutore materiale) possa anche solo attendere la conclusione degli ultimi giorni di vita nell’agonia della malattia fra le mura della propria casa e l’affetto dei suoi familiari.

 

Nel cittadino medio prevale comprensibilmente l’istinto della giustizia retributiva, senza alcuna considerazione per l’articolo 27 della Costituzione Repubblicana che vieta l’esecuzione di pene contrarie al senso di umanità e per l’articolo 146 del codice penale che impone la sospensione della pena carceraria quando le condizioni di salute del detenuto risultano incompatibili con lo stato di carcerazione perché si trova in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più ai trattamenti disponibili e alle terapie curative.

 

In uno Stato di diritto, tuttavia, la giustizia è amministrata da giudici indipendenti, terzi ed imparziali, sull’esito delle cui decisioni non possono incidere alterazioni emotive individuali o collettive. Le norme suscettibili di applicazione alla carcerazione di Totò Riina rappresentano pacificamente tutele dei diritti fondamentali che in quanto tali si caratterizzano per l’inderogabilità assoluta.

 

Si tratta di disposizioni la cui ingiustificata disapplicazione anche per un solo caso rimetterebbe in discussione la natura stessa dello Stato costituzionale e del principio di eguaglianza formale di cui all’articolo 3 della medesima Carta fondamentale.

 

Lo Stato italiano ha esercitato sul boss mafioso Riina la propria giurisdizione secondo le norme e le regole vigenti nell’ordinamento giuridico e grazie a questa architettura di civiltà lo ha condannato all’ergastolo più volte, lo ha imprigionato e lo ha relegato al regime carcerario del cosiddetto 41 bis. Non vi è alcuna ragione perché adesso rinunci all’esercizio della propria sovranità, della propria forza e della propria autorevolezza, abdicando all’applicazione del principio di legalità.

 

Ciò che in questa vicenda, invece, non è comprensibile e ancor meno accettabile è la posizione assunta da autorevolissimi rappresentanti delle istituzioni secondo i quali Totò Riina non dovrebbe essere scarcerato perché ancora in condizioni d’incarnare la figura del boss mafioso in grado di scompaginare l’ordinaria convivenza civile.

 

Se fosse vero che dopo 25 anni di duro regime carcerario al 41bis, al riparo dal pericolo di coltivare relazioni esterne, in totale isolamento per tutto il tempo nel corso del quale lo Stato italiano ha continuato a lottare contro la mafia, arrestando padrini, colonnelli e manovalanza di vario genere, un uomo di 86 anni, gravemente malato, potesse ancora rappresentare un pericolosissimo boss della mafia, in grado di terrorizzare magistratura e forze dell’ordine che il fiato sul collo dovrebbero far sentire a tutte le organizzazioni criminali, allora all’inferno non dovrebbe andarci solo l’ex padrino di Corleone.

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