Ansa

Dopo il terremoto

In trappola fra fango e macerie. Lo sforzo dei volontari in Siria non basta

Luca Gambardella

Il sisma ha già provocato oltre 5 mila morti e più di 20mila feriti. In attesa del supporto internazionale, tutte le forze in campo nella zona hanno già promesso aiuto, da ogni fronte di guerra. Ma i veti e le bombe della Russia rendono complicata ogni operazione

Il terremoto che ieri notte ha colpito il sud della Turchia e il nord della Siria ha già fatto circa 5 mila morti e oltre 20 mila feriti. Migliaia di persone restano imprigionate nel fango e sotto le macerie, interi villaggi sono stati distrutti. Il numero degli sfollati è indefinibile al momento – solo nel nord-ovest della Siria si parla di oltre 10 mila persone, ma è una stima per difetto - e le basse temperature, che la notte si spingono ampiamente sotto lo zero, sono destinate a durare anche nei prossimi giorni. 

 

La prima scossa di 7.8 gradi Richter che ha avuto come epicentro la città turca di Gaziantep ha generato quella che ormai tutti hanno definito una “crisi nella crisi”, in particolare nel nord della Siria. Ancora prima del disastro della scorsa notte, erano già 3 milioni gli sfollati dopo 12 anni di guerra, con oltre il 65 per cento delle infrastrutture distrutto o danneggiato, carenza di medici e squadre di soccorso, ospedali fatiscenti e privi di macchinari e medicinali. Nei mesi scorsi, Idlib nel nord ovest ha registrato decine di migliaia di casi di colera trasmesso dall’acqua contaminata. Tutti hanno già promesso aiuto, da ogni fronte di guerra, talvolta interrompendo i combattimenti che andavano avanti da anni. I curdi delle Forze democratiche siriane hanno dato solidarietà ai nemici turchi, lo stesso hanno fatto le milizie islamiste di Hayat Tahrir al Sham che governano Idlib e gli israeliani, che si sono detti pronti a inviare squadre di soccorso in Siria, per quella che sarebbe la loro prima missione ufficiale in territorio siriano dopo anni di guerra nascosta.

 

Subito dopo le prime scosse sismiche, i primi ad attivarsi sono stati i White Helmets, un corpo di appena 3 mila volontari addestrati da turchi e qatarioti e che in tutti questi anni sono stati gli angeli custodi di centinaia di migliaia di persone salvate dai bombardamenti del regime siriano e degli alleati russi. Oggi, anche sul Foglio, hanno chiesto aiuto alla comunità internazionale, ma soprattutto hanno supplicato Bashar el Assad e il presidente russo Vladimir Putin di interrompere i loro bombardamenti sulle zone abitate e permettere le operazioni di recupero di chi è rimasto sotto le macerie. 

 

Lo sforzo dei volontari però è insufficiente e mancano di risorse, prima fra tutte il carburante, che in Siria è ormai diventato un bene prezioso, spesso contrabbandato sul mercato nero. Le missioni delle Nazioni Unite già attive in questi anni di guerra nel nord della Siria erano calibrate per prestare aiuti umanitari post bellici. Significa che erano idonee a costruire tendopoli, fornire assistenza sanitaria, dare cibo e acqua. Ma oltre a essere sotto finanziate – solo il 40 per cento dei progetti ha ricevuto fondi nel 2022 - non sono adatte a prestare assistenza in casi di primissima emergenza o ad attivare operazioni di recupero dopo disastri naturali come quello delle scorse ore. 

 

C’è inoltre un problema di approvvigionamenti, che in realtà va avanti da tempo. A oggi esiste un solo valico da cui i convogli umanitari possono transitare fra Turchia e Siria, quello di Bab al Hawa, nel nord-ovest. Gli altri passaggi sono stati chiusi nell’ultimo anno per l’opposizione della Russia, che ha posto il veto in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Una crudeltà che aveva chiari intenti politici – gli aiuti umanitari, dice Mosca, devono passare direttamente dalle mani del regime di Damasco, non da paesi terzi – che oggi però ha conseguenze ancora più drammatiche. Nonostante la chiusura dei confini che già erano militarizzati fra Siria e Turchia, le vie di comunicazione da una parte e dall’altra della frontiera sono altamente connesse. Ma il terremoto ha danneggiato l’aeroporto di Antakya, nel sud della Turchia, così come le strade che da lì portano a Gaziantep e al confine siriano. Quindi gli aiuti umanitari hanno enormi difficoltà ad arrivare in Siria e anche il trasporto dei feriti è complesso. Gli ospedali sono saturi anche in Turchia e ciò impedisce che i feriti possano ricevere assistenza oltre confine. La macchina degli aiuti si è attivata, ma migliaia di persone sono in trappola nel fango.

Di più su questi argomenti:
  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.