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Le beghe laterali sono il core business di Trump (volutamente)

Distrai et impera. Nelle ultime settimane il presidente americano si è incagliato in polemiche laceranti e tutto sommato laterali che minano gli stessi propositi politici del presidente. Perché la stagione della politica non arriva mai

Nelle intenzioni dichiarate, l’autunno di Donald Trump doveva essere la sospirata stagione del governo. L’agenda del presidente prevedeva innanzitutto la riforma fiscale, con il grandioso taglio delle tasse a fare da collante della destra atomizzata, poi la messa a punto di una strategia per rimpiazzare in qualche modo l’Obamacare e la gestione dei postumi delle emergenze in Texas, Florida e a Porto Rico. Il twittatore in chief, invece, ha altre priorità. Nelle ultime settimane Trump si è incagliato in polemiche laceranti e tutto sommato laterali che minano gli stessi propositi politici del presidente, ennesimi casi di autosabotaggio che confondono gli osservatori razionali in cerca di una logica.

 

Ieri si è dedicato all’arte del complotto, accusando i Clinton e l’Amministrazione Obama di avere aiutato la Russia ad acquistare una partita di uranio nel 2010, “la più grande storia di cui i Fake Media non vogliono occuparsi”. Qualche minuto più tardi la teoria della cospirazione si è estesa al famoso dossier anti Trump compilato da una ex spia inglese durante la campagna elettorale, quello dove si raccontavano, fra le altre cose, le “piogge dorate” di prostitute assoldate per dissacrare il talamo moscovita dove avevano dormito i coniugi Obama. Gli amministratori dell’azienda che ha prodotto il documento si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, e il presidente non si è lasciato sfuggire l’occasione per superare a destra la retorica complottista standard: “Gli impiegati dell’azienda coinvolta con il Fake Dossier si appellano al quinto emendamento. Chi ha pagato, la Russia, l’Fbi oppure i democratici (o tutti questi)?”.

 

Le iperboli di ieri seguono il pattern della distrazione dai propositi politici. Soltanto nelle ultime tre settimane Trump si è gettato in una polemica feroce e ramificata con la Nfl, rea di aver promosso una campagna di boicottaggio dell’inno nazionale, ha rinnovato la guerra con i giornalisti, s’è inventato una polemica sul presunto trattamento irriguardoso di Obama nei confronti delle famiglie dei caduti in guerra, tirando fuori perfino il caso del figlio di John Kelly, il capo di gabinetto che aveva espressamente chiesto di non rivangare la storia di Robert Michael, morto in Afghanistan nel 2010. Forse però non si tratta soltanto di distrazioni dispensate da una mente erratica.

 

Eliana Johnson su Politico sostiene che Trump si concentra su polemiche laterali perché “vede la policy come una distrazione dalla più ampia battaglia culturale per la quale crede di essere stato eletto”, e dunque è attratto in modo invincibile da tutto ciò che può farlo brillare come distruttore di uno status quo ideologico inaccettabile. Sono i grandi temi della cultura e della società che avvincono la base e solleticano i suoi istinti peggiori, non i piani di riforma fiscale, e Trump li ripropone con i modi da trivio in cui eccelle. Quando attacca i giocatori di football che s’inginocchiano all’inno stuzzica il nazionalismo cupo che alberga nel cuore di una certa America (distinto dal patriottismo luminoso che alberga nel cuore di tutta l’America), quando attacca i media cavalca con argomenti anti intellettualisti la lotta alla dittatura liberal dei giornali, quando evoca la collusione dell’Fbi con la Russia nella produzione di controinformazioni per screditarlo agita lo spettro immortale del “deep state”, lo stato sommerso che i complottisti usano per spiegare qualsiasi cosa. Con questo affastellamento costante di distrazioni, Trump configura una tipologia patriottica americana, delinea i tratti di una antropologia che giudica la politica – nel senso del governo e delle riforme – un’attività secondaria. L’assetto culturale è quello che conta. Il suo presidente di riferimento, Andrew Jackson, aveva costruito la sua legacy sulla fondazione di un nuovo patriottismo identitario, e ora con sguardo severo il suo ritratto osserva Trump nello Studio Ovale mentre twitta ciò per cui pensa di essere stato chiamato a governare. “Pensa di essere stato eletto per queste cose, queste sono le cose di cui sa come parlare, e queste sono le cose che gli permetteranno di arrivare sulla prima pagina del New York Post”, ha detto Jonah Goldberg della National Review, e quando dice “queste cose”, this stuff, intende quel coacervo di elementi spuri che in qualche modo è orientato all’affermazione di un’identità culturale. Le distrazioni laterali che occupano ogni giorno non sono inciampi, sono il core business del presidente.

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