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Come sarà il nuovo Iran?

Gianni Castellaneta

Oggi le elezioni, che sono fondamentali per capire dove andrà Teheran. Il ruolo del G7

Nonostante l’attenzione mediatica sia stata monopolizzata dalle presidenziali francesi e dalla vittoria di Emmanuel Macron, l’appuntamento elettorale che si terrà oggi non è da meno per la rilevanza e l’impatto che potrà avere sulle relazioni internazionali. L’Iran sta per andare alle urne per eleggere il suo nuovo presidente, in una competizione oramai riservata a due soli concorrenti: l’incumbent Hassan Rohani – esponente della fazione riformista del paese – che sarà sfidato da Ebrahim Raisi, candidato dell’ala più conservatrice proveniente da Mashad seconda città del paese e sede di uno dei più venerati santuari sciiti.

 

Il dilemma tra riformismo (che si accompagna a una maggiore apertura e moderazione in campo internazionale) e conservatorismo si conferma dunque essere la principale linea discriminante lungo la quale verrà giocato lo scontro elettorale. Per rafforzare il campo opposto al presidente uscente Rohani, è notizia di pochi giorni fa il ritiro dalla competizione di Mohamad-Baqer Ghalibaf, sindaco della capitale Teheran che ha annunciato il suo sostegno a Raisi. Il passo indietro di Ghalibaf, che aveva già partecipato in passato alle elezioni presidenziali senza successo, dovrebbe dunque rafforzare il campo conservatore complicando le cose per Rohani. Il presidente è ancora in testa nei sondaggi, appoggiato anche in forma discreta da ex presidente Khatami ma una vittoria al primo turno appare ora meno scontata (in Iran è previsto il ballottaggio se nessuno dei candidati supera subito il 50 per cento delle preferenze).

 

Sarebbe però semplicistico ridurre lo scontro interno in Iran solo a una battaglia tra conservatori e progressisti, anche in ragione della complessa società persiana. La performance dell’economia sarà infatti un altro fattore molto importante da tenere in considerazione: sotto il governo di Rohani l’Iran ha ripreso a crescere con decisione (toccando anche livelli di crescita del 6 per cento annuo), a differenza del cammino traballante registrato durante gli otto anni di Ahmadinejad. Tuttavia l’elevata disoccupazione, e in particolare quella giovanile, continua a rappresentare un problema di difficile soluzione: sempre più giovani iraniani ottengono una laurea, ma l’economia interna non è in grado di creare sufficienti posti di lavoro così qualificati. Servirebbe dunque un leader in grado di proseguire su questa rotta, promuovendo l’afflusso di investimenti esteri che possono contribuire a creare opportunità professionali.

Per fare ciò, la diplomazia è ovviamente fondamentale. In questo senso, possiamo dire che l’Iran deve ancora raccogliere i frutti del più grande successo ottenuto da Hassan Rohani nel suo mandato: l’accordo per lo smantellamento del programma nucleare nazionale che ha permesso di riaprire il paese al mondo, ponendo fine a un isolamento economico e politico che era durato per 35 anni. Sarebbe un vero peccato se una vittoria di Raisi portasse a un nuovo irrigidimento delle posizioni di Teheran verso l’occidente e i propri vicini mediorientali (in particolar modo le potenze sunnite), giacché i grandi passi avanti compiuti negli ultimi anni sarebbero vanificati. Ultima parola spetterà comunque come sempre alla guida spirituale ayatollah Kamenei, che saprà mediare tra un indebolito Rouhani e un rafforzato Raizi.

 

E tuttavia la responsabilità non è solo dell’Iran, ma anche della buona volontà delle potenze straniere, soprattutto gli Stati Uniti. La linea di Donald Trump non è ancora chiara, ma dopo alcuni “strali” lanciati dall’inquilino della Casa Bianca nei confronti di Teheran che avevano paventato il rischio di mandare all’aria l’accordo di Ginevra del 2015, la vittoria dei conservatori non sarebbe certamente di buon auspicio per il rafforzamento delle relazioni con il mondo esterno. E’ singolare poi la contemporanea presenza nell’area del presidente degli Stati Uniti in visita in Arabia saudita, tradizionale antagonista dell’Iran. Ecco dunque che entra in gioco il ruolo dell’Italia come possibile mediatore con un partner che è fondamentale per l’Europa e l’occidente. L’Iran è determinante per gli equilibri e la stabilità nella regione mediorientale, e un maggiore impegno di Teheran nella lotta contro l’Isis potrebbe favorire l’inizio di una nuova fase nell’area compresa tra la Siria e l’Iraq. Inoltre, l’Iran è un importante partner economico con cui l’Italia ha notevolmente incrementato gli scambi negli ultimi anni, sia in termini di commerci sia di investimenti, e non solo in ambito energetico, visto che siamo il secondo partner economico tra i Paesi Ue dopo la Germania.

 

Il G7 di Taormina capita al momento più opportuno per focalizzare l’attenzione dei sette “grandi” sul dossier iraniano, impostato su binari positivi da Rohani e da Obama. Il primo potrebbe rimanere al suo posto, mentre il secondo è stato rimpiazzato da un presidente ancora molto incerto sul da farsi. Sarà compito dei leader a Taormina far capire a Trump che un Iran isolato e antagonista non migliora lo stato delle relazioni internazionali, che non sono mai state cosi complicate come in questa fase storica.

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