Operazione di salvataggio di 433 migranti al largo della costa libica (foto LaPresse)

I “respingimenti assistiti” sono la miglior soluzione per l'Italia

Gianandrea Gaiani

171 mila migranti arrivati dal Mediterraneo nel 2016 (numero record). Usare la flotta per risolvere il problema in modo ragionevole

L’emergenza causata dai flussi ininterrotti di immigrati illegali in Italia – secondo dati diffusi questa settimana dal ministero dell’Interno gli illegali giunti dal Mediterraneo nel 2016 sono ormai 171 mila, e il dato batte il record storico di 170 mila del 2014 – dovrebbe imporre al governo italiano l’assunzione della responsabilità di fermare le partenze dalle coste della Tripolitania. Non solo per ripristinare la legalità da tempo calpestata consentendo a chiunque paghi i criminali di raggiungere l’Europa (neppure chi fugge dalla guerra ha diritto di rivolgersi a criminali per andare dove vuole) ma anche perché le politiche di immigrazione sono di competenza dei singoli stati, non dell’Unione europea, come dimostrano i respingimenti attuati dalla Bulgaria o il no all’accoglienza detto da Malta. La linea dura sull’immigrazione sta prendendo piede in tutta Europa, inclusa la Francia (i programmi del Front National ma anche di François Fillon parlano chiaro) e persino in Germania, dove Angela Merkel si ricandida promettendo un ritorno al rigore su questo tema.

  

  

L’Italia rischia quindi di restare isolata a causa dell’accoglienza indiscriminata benché abbia a disposizione un’opzione ragionevole e a basso costo, quale quella dei “respingimenti assistiti”. Si tratta di un’operazione attuabile impiegando 5 o 6 fregate e pattugliatori (un terzo di quelle schierate oggi dalle flotte italiane ed europee) e una nave da sbarco classe San Giorgio dotata di ampio ponte di volo dove raccogliere i clandestini soccorsi in mare e identificarli: una flotta da schierare a ridosso della costa libica per intercettare barconi e gommoni appena salpati evitando così naufragi e migliaia di morti. Malati, bambini soli e donne incinta sarebbero trasferiti in Italia per essere rimpatriati tramite i loro paesi d’origine, “incoraggiati” con la minaccia di chiudere il rubinetto degli aiuti elargiti da Italia e Ue. Tutti gli altri (oltre l’80 per cento sono uomini giovani) verrebbero riportati in Libia a piccoli gruppi, utilizzando mezzi da sbarco con scorta dei fucilieri di Marina e lasciati su una spiaggia mantenuta sgombra da milizie e bande libiche con la presenza deterrente di aerei e di una delle fregate Fremm – da mezzo miliardo di euro ciascuna – oggi impiegate come “traghetti”.

 
A differenza delle operazioni di soccorso e accoglienza, destinate a non avere mai fine, i “respingimenti assistiti” consentirebbero di risparmiare molte vite e azzerare i flussi migratori e gli affari dei trafficanti (chi li pagherebbe per ritrovarsi sulla sponda africana del Mediterraneo?) legati al terrorismo islamico, come ammette anche il governo italiano. Certo, a Tripoli non approverebbero i respingimenti (secondo la missione navale Ue, i traffici di esseri umani rappresentano il 50 per cento del pil della Tripolitania), ma finché la nostra ex colonia non sarà in grado di controllare il suo territorio, l’Italia ha il diritto di difendersi dalle minacce. Del resto Stati Uniti, Egitto e Algeria hanno condotto numerosi raid militari in Libia senza chiedere il permesso alle Nazioni Unite che, con i “respingimenti assistiti”, avrebbero l’occasione per intervenire e rimpatriare i migranti, come già fecero nel 2011 in Tunisia con un ponte aereo a favore di oltre un milione di lavoratori stranieri fuggiti dalla Libia. Anche l’obiezione secondo la quale non si possono riportare i migranti in un paese in guerra non regge: in Libia si combatte solo in poche aree, i migranti sono entrati nel paese di loro volontà e secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni il 56 per cento degli africani presenti vuole restare a lavorare in Libia, non venire in Europa.