Xi Jinping (foto LaPresse)

Basta un “Xì”

Nel momento di rottura della finanza italiana, la Cina avanza a Roma

Alberto Brambilla

BoCom è la quarta banca cinese che mette sede in Italia. Sequi: “Segnale di fiducia”, quando il resto barcolla

Roma. Mentre l’industria bancaria italiana attraversa un momento “make or break” – o salvezza o morte – la banca di stato cinese Bank of Communications ha celebrato l’apertura della sua prima sede italiana con una cerimonia coreografata da un conto alla rovescia in stile pirotecnico proiettato sul megaschermo nella sala ricevimenti dell’Hotel Westin Excelsior, dirimpetto all’ambasciata americana nella capitale. Bank of Communications (BoCom), fondata nel 1908, storica banca di stato – finanziò le prime ferrovie cinesi – è tra le prime fornitrici di servizi finanziari nella seconda economia più grande al mondo. Di recente BoCom si è internazionalizzata con 59 filiali e sta creando avamposti in Europa.

 

A novembre ha inaugurato le sedi di Parigi e del Lussemburgo, prima ancora a Francoforte. BoCom è la prima banca cinese a stabilirsi direttamente a Roma senza prima passare da Milano. La sede sarà in Piazza Barberini n. 52, a circa duecento metri dal ministero dello Sviluppo economico, e avrà come core business “l’offerta di servizi finanziari ad aziende cinesi e ad aziende locali”, ha detto il deputy ceo Harry Han, oltre alla gestione di asset per clienti facoltosi. Con l’aumento dell’interscambio e il miglioramento delle relazioni, nell’ultimo decennio sono arrivati in Italia tre dei quattro principali istituti cinesi: Bank of China e Industrial and Commercial Bank of China con sedi a Milano e Roma, e China Construction Bank (Agricultural Bank of China è la quarta). BoCom è più piccola e ha un profilo di credito più debole rispetto alle altre, date le ridotte dimensioni e l’influenza governativa. Per l’ambasciatore italiano in Cina, Ettore Sequi, la sua presenza è segno di fiducia.

 

“E’ la sesta filiale operativa di una banca cinese: un segno di fiducia da parte del sistema Cina verso il sistema Italia”, ha detto l’ambasciatore a Pechino Sequi in videoconferenza alla cerimonia di BoCom. Scegliere l’Italia come sede operativa non è scontato. A luglio Barclays, primaria banca inglese, si è liberata di 90 filiali italiane. La francese Bnp Paribas aveva svalutato di quasi un miliardo la partecipazione nella controllata italiana Bnl. In un vertice informale a Cagliari la settimana scorsa, il presidente cinese Xi Jinping e il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, hanno parlato di come migliorare e ampliare le relazioni finanziarie. “Fare operazioni insieme su mercati terzi” è uno sbocco futuro delle relazioni bilaterali auspicato dall’ambasciatore Sequi ieri all’evento romano a proposito della “reciprocità” di investimenti e business. People’s Bank of China, la Banca centrale cinese, ha quote simboliche (2 per cento circa) in Generali, crocevia di tutti gli intrecci finanziari, in Monte dei Paschi e in Unicredit, banche in difficoltà dalle quali dipende la sussistenza del sistema finanziario nazionale così come lo conosciamo e, secondo alcuni, la permanenza dell’Italia nell’euro.

 

La fiducia nella solidità della finanza tricolore ora appare ai minimi, secondo alcuni media anglosassoni. Wolfgang Münchau sul Financial Times ieri è tornato a parlare d’uscita dell’Italia dall’euro (“Italexit”) se le complesse ricapitalizzazioni di Mps e Unicredit non saranno risolte con strumenti di mercato ma richiederanno l’intervento dello stato – negato dalle vigenti regole europee e osteggiato dalla Germania. Un report della tedesca Deutsche Bank parlava già di uscita dell’Italia dall’euro. La vittoria del No al referendum costituzionale al quale Renzi ha legato il suo destino politico accelererebbe una crisi sistemica con esiti incerti. La resistenza di massima del presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, ad accordi commerciali transnazionali fa apparire il leader comunista Xi Jinping come improbabile difensore del libero mercato. “La Cina non chiuderà le porte al mondo esterno, ma le aprirà ulteriormente”, ha detto al vertice Apec sabato. L’Italia sembra intenzionata a fidarsi del messaggio. 

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.