Achille Campanile (foto LaPresse)

La Rai è solo canzonette e quiz per ignoranti. Firmato Achille Campanile

Antonio Gurrado

Falsi miti e recensioni datate anni 60. Nuova edizione Bompiani

A noi nati dopo il Biscione è stato raccontato che in origine la televisione trasudasse cultura salvo poi, una volta instaurata la concorrenza delle reti commerciali, generarsi un pervicace compromesso al ribasso causa della recente decadenza dei costumi. I resoconti mitizzati o gli spezzoni scelti (come nella nuova trasmissione di Walter Veltroni, “Gli occhi cambiano”) costituiscono fossili di un’età dell’oro cui sarà possibile rimontare solo se la Rai deciderà di tornare servizio pubblico per l’educazione e il miglioramento delle masse, come fu all’apertura delle trasmissioni il 3 gennaio 1954. Ma sarà poi veridica, questa mitologia? Sorge qualche dubbio leggendo la nuova edizione de “La televisione spiegata al popolo”, antologia delle recensioni di Achille Campanile per il Corriere d’Informazione e per l’Europeo, curata da Aldo Grasso e pubblicata da Bompiani. Campanile denunzia capillarmente i mali della televisione d’oggi, risultato sorprendente per un volume che si concentra sugli albori della Rai, grossomodo sul suo primo decennio.

E’ passato mezzo secolo ma è tutto uguale. Ci sono trasmissioni gastronomiche e serie tv sugli ospedali, risate registrate, estati in cui la tv cade in letargo ed emana repliche; soprattutto ci sono “canzoni, canzoni, canzoni; canzoni per tutti; canzonissime, canzonette, supercanzoni; invadono la tv dilagando in una forma paurosamente alluvionale, in una marea che ancora cresce minacciosa”. C’è la fiction ovvero “l’originale televisivo: una specie di filmetto un po’ più pecione dei comuni filmetti, e che perciò non osa attribuirsi la qualifica di filmetto”. Né mancano riduzioni dei classici con titolo e trama modificati, come accade per “Le confessioni di un italiano” di Ippolito Nievo; per l’invadenza del siciliano non serve aspettare Montalbano visto che “Mastro Don Gesualdo”, scritto da Verga in italiano, per essere trasmesso nel 1964 viene tradotto in dialetto. Ci sono ballerine bardate da circo equestre e giornalisti che abbondano in anglismi, sgrammaticature, accenti spostati; ci sono la pubblicità occulta, gli applausi comandati e trasmissioni che parlano di altre trasmissioni. I concorrenti dei quiz si meravigliano sentendosi rivelare dal presentatore risposte elementari che ignoravano. Gli intellettuali abbondano ma in qualità di “plotoncino di personaggi buoni a tutto fare, che la tv ha sottomano e convoca e fa apparire sul video per ogni evenienza. Vengono indifferentemente chiamati per pronunziarsi su questioni di politica estera come su faccende culinarie, sullo sport come sulla rieducazione dei carcerati, sull’amore come sul verme solitario”. Al loro stesso livello si convoca l’uomo della strada, interpellato in interviste che divengono “show, scene madri, dialoghi scespiriani”.

“Il fatto che molti spettatori desiderino o gradiscano un certo tipo di trasmissioni non è una buona ragione per farle”, spiega Campanile smascherando l’ipocrisia fondante della Rai: il presupposto che, essendo il pubblico formato da sempliciotti, bisognasse produrre programmi cretini acciocché risultassero comprensibili. “Giustificazione che, con la pretesa di legittimare qualsiasi imbecillità, evoca due ordini di visioni apocalittiche: da una parte, un panorama sterminato di poveri esseri irsuti che guardano la televisione alla luce di fumose resine accese sfregando pietra a pietra; e, dall’altra, autori e programmisti della tv che si comprimono le meningi allo scopo di frenare lampi di genio, concezioni troppo elevate, invenzioni troppo sublimi. La teoria che bisogna essere stupidi per essere accessibili alle grandi masse si rivela qual è: un pretesto per nascondere la propria stupidità”. Campanile assolve la tv, che reputa invenzione “utile, necessaria, benefica, provvidenziale”; non accusa il mezzo ma il contenuto, i programmi così come sono stati impostati per l’originaria scelta di produttori e autori. Possiamo concluderne che non è il basso livello degli italiani colpa della tv ma il basso livello della tv colpa degli italiani.

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