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Dopo Villaggio è impossibile far vedere Ejzenštejn all'università

Andrea Minuz

Quello che ad alcuni sembra un oltraggio è invece uno dei più grandi favori che si possano fare a un cosiddetto “classico”

Paolo Villaggio ha introdotto una frattura epocale nella cultura degli italiani. Dopo “Il secondo tragico Fantozzi” non è più possibile vedere il capolavoro-immortale-di-Sergej-Ejzenštejn, “La corazzata Potemkin”, senza pensare all’“occhio della madre”, agli “stivali dei soldati”, al “montaggio analogico”, a “Inghilterra-Italia venti a zero per noi”. In breve, senza essere attraversati per un istante dall’inconfessabile sospetto di trovarsi di fronte a una “cagata pazzesca” da “novantadue minuti di applausi”. Quello che ad alcuni sembra un oltraggio è invece uno dei più grandi favori che si possano fare a un cosiddetto “classico”. Ovvero, insinuare il sanissimo dubbio che i classici diventino tali anche col supporto dell’ideologia dominante e dei meccanismi coercitivi della scuola, dell’Università o dell’azienda, come nel caso di Fantozzi.

 

Oggi, per gli studenti di cinema la famigerata “corazzata Kotiomkin” lunga “diciotto bobine” è tra i film immaginari più famosi di tutti i tempi. Sicuramente più celebre dell’originale. Molte persone – cioè tutti quelli che hanno visto una decina di volte “Fantozzi” e mai Ejzenštejn – sono convinte che esista da qualche parte un film russo o polacco del maestro “Einstein”, comunque muto, straziante e lunghissimo che si intitola così.

 

Se votassimo per eleggere la scena più celebre della storia del cinema italiano, nei sondaggi sulle intenzioni di voto sarebbero in testa Anna Magnani trafitta dai mitra tedeschi in “Roma città aperta”, Mastroianni e Anita Ekberg ammollo nella fontana di Trevi, magari lo spogliarello di Sophia Loren in “Ieri, oggi, domani”. Ma alla fine, fatta la nostra bella figura con l’agenzia demoscopica, sceglieremmo l’insubordinazione catartica di Fantozzi mentre dà uno schiaffone al potentissimo Guidobaldomaria Riccardelli, dopo avergli urlato in faccia l’amara verità sul cinema sovietico. Ci vorrebbe una “maratona Mentana” che racconti in diretta il ribaltamento delle posizioni con Rossellini, De Sica e Fellini superati dalla “cagata pazzesca” mentre in studio parte il dibattito sulla pancia del paese, Veltroni evoca la crisi delle élite, Paolo Mieli si dissocia illustrando risonanze kafkiane e gogoliane della maschera di Paolo Villaggio.

 

D’altronde, ancora oggi nei libri di storia del cinema italiano i suoi film praticamente non esistono. Paolo Villaggio viene celebrato per aver lavorato nell’ultimo film di Fellini, “La voce della luna” (di gran lunga tra i peggiori film del “Maestro”), un po’ come quando è morto Tomas Milian e i giornali hanno scritto “fu attore con Antonioni e Sidney Pollack”. Il collettivo Wu Ming ha tenuto a ricordarci il “danno culturale” della battuta di Fantozzi, perché “solo in Italia si reagisce sbuffando quando si nomina quel film che dura solo 70 minuti”. Peccato che in tutti questi anni non abbiano maturato un giudizio estetico più profondo.

 

Per esempio, che costringere i propri sottoposti a vedere un film sulla Rivoluzione d’ottobre in nome dei rapporti di potere è un mirabolante capovolgimento della retorica adorniana dell’“alienazione”, trasferita dalla famigerata “industria culturale” all’empireo dell’arte progressista e rivoluzionaria (si veda Giacomo Manzoli nel suo “Da Ercole a Fantozzi”, in una tra le poche letture brillanti di questa scena). Ma il meglio arriva nel finale. Quando gli impiegati, dopo aver bruciato l’unica copia del “Kotiomkin”, sono costretti a far rivivere il film sotto la direzione di Ricardelli, “ogni sabato pomeriggio, fino all’età della pensione”, con Fantozzi nei panni del bebè in carrozzina che cade rovinosamente sulle scale. La scena venne girata da Luciano Salce a Valle Giulia, pochi anni dopo i celebri scontri che inaugurarono il lunghissimo sessantotto italiano. La mirabolante sovrapposizione tra la scalinata di Odessa e quella di Valle Giulia, lo sconfinamento fantozziano della Rivoluzione d’ottobre in quella degli studenti italiani che avrebbero volentieri imposto Ejzenštejn al resto del paese, resta tra i gesti artistici più raffinati, perfidi e iperbolici della nostra cultura popolare. Anche per questo, non ringrazieremo mai abbastanza Paolo Villaggio.

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