Papa Francesco a San Siro durante la sua recente visita a Milano (foto LaPresse)

Il Dio delle città

Matteo Matzuzzi

C’è una teologia anche per le periferie. La predicazione del Papa indica una nuova frontiera della fede

Dunque domandiamoci: in questa città, in questa comunità ecclesiale, siamo liberi o siamo schiavi, siamo sale e luce? Siamo lievito? Oppure siamo spenti, insipidi, ostili, sfiduciati, irrilevanti e stanchi?”. La città in questione era Roma, correva l’anno 2014 e Francesco in Vaticano esortava a interrogarsi, a intraprendere un percorso di discernimento e riflessione sullo stato della città. Niente discorsi retorici o interrogativi troppo impegnativi per avere risposte immediate, bensì un cammino che parte da lontano e man mano s’avvicina progressivamente al cuore del problema, per realizzare il suo progetto per la città, “che è quello di trasformare l’insieme dei cittadini in un popolo”, diceva qualche tempo fa il cardinale Stanislaw Rylko, già presidente del Pontificio consiglio per i laici e ora arciprete di Santa Maria Maggiore. Popolo che non è “una massa amorfa, come a volte sembrano gli abitanti delle nostre megalopoli urbane, ma un insieme organico di cittadini responsabili, una pluriforme armonia”. Insomma, un “soggetto collettivo in grado di generare processi storici propri”. Potrebbe sembrare una visione utopica, con i poveri posti al centro del disegno, ma che diventa più realistica se si coglie la prospettiva periferica che Francesco declina in ogni ambito della sua missione pastorale.

 

C'è la necessità
di cogliere
e saper leggere
i segni della "cultura inedita" che "palpita
e si progetta nei nostri centri urbani"

La teoria messa in pratica è ben visibile durante i suoi viaggi e le visite apostoliche nelle città. Entra negli agglomerati urbani, caotici e spesso alienanti, non dal centro, bensì dai lembi estremi, le periferie esistenziali. Parte dai “poveri urbani”, cioè dagli esclusi e dagli scartati, dai non cittadini, dai cittadini a metà, dagli “avanzi urbani”, come ha scritto nell’esortazione programmatica Evangelii gaudium. Lo si è visto anche a Milano, con l’ingresso in città non dalla porta principale bensì dal quartiere delle Case Bianche, un migliaio di residenti divisi negli enormi casermoni costruiti negli anni Settanta. Un quartiere con una forte immigrazione e disagio sociale, ma anche con molteplici episodi di solidarietà. Francesco ha premesso di essere entrato nel quartiere “da sacerdote”, con la semplice stola bianca. Per toccare da un lato le piaghe della sofferenza e dall’altro per esaltare la luce che da quei palazzoni comunque esce, nonostante tutto. La fede semplice e profonda dei coniugi ultraottantenni malati, il cinquantanovenne allettato e curato giorno e notte dalla moglie, la famiglia musulmana che fa volontariato in parrocchia, dal doposcuola ai corsi di lingua araba. Famiglie chiamate “oggi a contrastare la desertificazione comunitaria della città moderna”, per usare le parole che lo stesso Pontefice pronunciò durante un’udienza generale del 2015. Il problema è che, aggiungeva allora, “le nostre città sono diventate desertificate per mancanza d’amore, per mancanza di sorriso. Tanti divertimenti, tante cose per perdere tempo, per far ridere, ma l’amore manca”, e solo “il sorriso di una famiglia è capace di vincere questa desertificazione delle nostre città”.

 

"Nella pastorale urbana la qualità sarà data
dalla capacità
di testimonianza
della chiesa
e di ogni cristiano", diceva Francesco

Usava una metafora chiara, Francesco, per spiegare questo pensiero, ed è quella del “progetto di Babele che edifica grattacieli senza vita”. E’ allora dalla parte più vulnerabile delle città, piccole e grandi che siano, che il Papa preferisce entrare, proprio per realizzare quella sorta di “utopia” che consiste nel porre i poveri urbani al centro. E’ la richiesta di un cambiamento di metodo, perché – e sono parole sue – “i tempi sono cambiati, non siamo più nella cristianità. Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità”, innanzitutto (ma non solo) pastorale.

 

Sarà anche vero che “la vita di città non è stata creata da Dio”, come diceva sì categorico Jeeter ad Ada ne La via del tabacco, il capolavoro di Elskaire Caldwell, in Italia ripubblicato da Fazi Editore. Ma è altrettanto certo che bisogna sapere cogliere i segni, adattarsi e darsi da fare. Scriveva il teologo Robert Cheaib che Jorge Mario Bergoglio “riassume lo sguardo alla città che vuole proporre con il quadro della contemplazione dell’incarnazione presentata da sant’Ignazio nei suoi Esercizi spirituali. Si tratta di uno sguardo che ‘non si lascia impantanare in quel dualismo che va e viene continuamente dalle diagnosi alla pianificazione, ma si coinvolge drammaticamente nella realtà della città e si impegna con essa nell’azione’”. Cheaib commentava la pubblicazione italiana di Dio nella città (San Paolo), piccolo libretto che riprendeva un capitolo (il primo) di Dios en la ciudad, scritto dall’allora arcivescovo di Buenos Aires.

 

Il cardine della riflessione di Bergoglio ruotava attorno al documento conclusivo della Quinta conferenza generale dell’episcopato latinoamericano e dei Caraibi di Aparecida, svoltasi nel 2007. “L’affermazione di Aparecida – proseguiva il teologo il cui ultimo libro Oltre la morte di Dio è stato recensito dal Foglio il 29 marzo scorso – è una sfida, soprattutto per le città attuali dominate da un senso di a-teismo. A differenza dei tempi passati, il cristiano di oggi non vive più in prima linea nella produzione culturale, ma riceve (e a volte subisce) l’influenza e l’impatto di una cultura più o meno lontana dal Vangelo. I cristiani dei primi secoli possono esserci allora da maestri nell’inter-culturazione e nella qualità della presenza. I cristiani di oggi sono chiamati a seguire le orme della prima chiesa la quale – e qui si torna al documento di Aparecida – ‘si formò nelle grandi città del tempo e si servì di esse per espandersi’. L’invito – sono parole di Cheaib – è a vivere una pastorale urbana che esce per andare incontro, accompagnare ed essere fermento”.

 

L'ingresso a Milano
dalla periferia,
il quartiere
delle Case Bianche, luogo di disagio sociale ma anche di tanta solidarietà

La visita a Milano è la sintesi perfetta di quest’analisi stringata. Una “indimenticabile giornata di preghiera, dialogo e festa”, ha scritto il Papa nella lettera di ringraziamento al cardinale Angelo Scola. Il quartiere periferico, l’incontro con il clero in duomo, la sosta in carcere, la messa a Monza, l’incontro con i giovani allo stadio di San Siro. Un percorso di senso che rappresenta al meglio quel senso di comunità non stanca e avvizzita che Francesco indica come meta da raggiungere. E’ necessario accettare le sfide che il contesto non più solo cristiano pone dinanzi. Saper cogliere e leggere, insomma, i segni di quella “cultura inedita” che “palpita e si progetta nella città”. Fondamentale è, proprio per questo, non temere le sfide. “Quante volte si sentono delle lamentele: ‘Ah quest’epoca, ci sono tante sfide, e siamo tristi’. No. Non avere timore”, spiegava il Papa nel duomo di Milano rispondendo alla domanda d’un sacerdote. “Le sfide si devono prendere come il bue, per le corna. E’ bene che ci siano le sfide. Perché ci fanno crescere. Sono il segno di una fede viva, di una comunità viva che cerca il suo Signore e tiene gli occhi e il cuore aperti”. Semmai, aggiungeva Francesco, “dobbiamo temere una fede senza sfide, una fede che si ritiene completa. Questa fede è tanto annacquata che non serve. Le sfide ci aiutano a far sì che la nostra fede non diventi ideologica”. E poi, sempre, scavare a fondo. Per rimuovere le incrostazioni e – per usare ancora una volta le parole di Francesco – “scoprire, nella religiosità dei nostri popoli, l’autentico substrato religioso, che in molti casi è cristiano e cattolico”.

 

Diceva lo storico Andrea Riccardi che questo “è il tempo delle periferie perché è il tempo di ricostruire la città, questa è la grande sfida. La città – aggiungeva – deve essere ricostruita dalla politica, dall’urbanistica, ma deve essere anche abitata da comunità umane. Oggi nelle periferie si gioca la sfida dell’integrazione dei rifugiati e degli immigrati, ma l’integrazione non la fanno le istituzioni, sono le comunità che integrano e le comunità non esistono più. Dobbiamo far rinascere una grande passione civile e anche religiosa per le periferie, per abitarle nuovamente”.

 

Le sfide si devono prendere per le corna.
È bene che ci siano, perché ci fanno crescere. Sono il segno di una fede viva

E’ ancora l’Evangelii gaudium a spiegare meglio d’ogni altro discorso la linea tracciata da Francesco, la necessità di realizzare quell’utopia prima descritta: “E’ necessario arrivare là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima delle città. Non bisogna dimenticare che la città è un ambito multiculturale. Nelle grandi città si può osservare un tessuto connettivo in cui gruppi di persone condividono le medesime modalità di sognare la vita e immaginari simili e si costituiscono in nuovi settori umani, in territori culturali, in città invisibili. Svariate forme culturali convivono di fatto, ma esercitano molte volte pratiche di segregazione e di violenza. La chiesa – aggiungeva il Papa – è chiamata a porsi al servizio di un dialogo difficile”. “La città – metteva per iscritto Francesco – produce una sorta di permanente ambivalenza, perché, mentre offre ai suoi cittadini infinite possibilità, appaiono anche numerose difficoltà per il pieno sviluppo della vita di molti. Questa contraddizione provoca sofferenze laceranti. In molte parti del mondo, le città sono scenari di proteste di massa dove migliaia di abitanti reclamano libertà, partecipazione, giustizia e varie rivendicazioni che, se non vengono adeguatamente interpretate, non si potranno mettere a tacere con la forza”. Ecco perché è necessaria una svolta, una – si potrebbe dire senza troppi timori – rivoluzione che porti a pensare tutto in “chiave di missione”.

 

E’, diceva il vescovo di Roma ricevendo i partecipanti al Congresso internazionale delle Grandi città svoltosi a Barcellona nel novembre del 2014, “una vera trasformazione ecclesiale: dal ricevere all’uscire, dall’aspettare che vengano all’andare a cercarli”. Si tratta, insomma, di “un cambiamento nel senso della testimonianza. Nella pastorale urbana – proseguiva Francesco – la qualità sarà data dalla capacità di testimonianza della chiesa e di ogni cristiano. Papa Benedetto, quando ha detto che la chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione, parlava di questo. La testimonianza che attrae, che fa incuriosire la gente”.

 

L’esperienza preminente è quella delle villa miseria di Buenos Aires, l’enorme agglomerato che circonda il centro cittadino. “Nelle baraccopoli – ha detto di recente il Papa in un’intervista al mensile Scarp de’ tenis – c’è più solidarietà che non nei quartieri del centro. Nelle villa miseria ci sono molti problemi, ma spesso i poveri sono più solidali tra loro, perché sentono che hanno bisogno l’uno dell’altro. Ho trovato – ha aggiunto Francesco – più egoismo in altri quartieri, non voglio dire benestanti perché sarebbe qualificare squalificando, ma la solidarietà che si vede nei quartieri poveri e nelle baraccopoli non si vede da altre parti, anche se lì la vita è più complicata e difficile”. Un esempio fra i tanti ma applicabile alla gran parte delle città multipolari e multiculturali del pianeta. “Nella città – diceva Bergoglio – abbiamo bisogno di altre ‘mappe’, altri paradigmi, che ci aiutino a riposizionare i nostri pensieri e i nostri atteggiamenti. Non possiamo rimanere disorientati, perché tale sconcerto ci porta a sbagliare strada, anzitutto noi stessi, ma poi confonde il popolo di Dio e quello che cercano con cuore sincero la Vita, la Verità e il Senso”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.