Foto di Marta Lavandier, via LaPresse 

DAL BOOM AL CRASH

Bankman-Fried, genietto delle criptovalute, è caduto rovinosamente

Marco Bardazzi

Investimenti pazzi e frodi miliardarie, una storia americana senza fine. Quella di Ftx è l'ultima operazione fallita dei ragazzi prodigi e smanettoni che appassionano gli Stati Uniti 

Immaginate la scena, in attesa di vederla presto in una qualche serie su Netflix o Amazon Prime (è inevitabile). Un gruppo di investitori viene accompagnato nella sede di Ftx, una società nella quale fino a un mese fa tutti volevano mettere i soldi. La sala riunioni ha una vetrata tipo quelle delle stanze degli interrogatori di polizia. Si può vedere un locale attiguo senza essere visti: è l’ufficio di Sam Bankman-Fried, che dorme beatamente rannicchiato su una poltrona a sacco. Gli investitori osservano il giovane genio per qualche minuto, lo vedono svegliarsi e poi raggiungerli nella sala riunioni. Maglietta, short, infradito, folta chioma spettinata. Il genio appena sveglio inizia a parlare e in pochi minuti sono tutti affascinati dalla sua visione sui mercati finanziari e sul futuro delle criptovalute e lo riempiono di milioni di dollari. 

 

Accadeva davvero, fino a un mese fa. Bankman-Fried è l’ultimo esemplare di tech whiz kid, il ragazzo prodigio e smanettone, di cui l’America prima si innamora e poi resta inorridita. L’improvviso, velocissimo crack della sua piattaforma Ftx per la gestione delle operazioni in criptovalute, ha lasciato ancora una volta spiazzato un mondo di piccoli e grandi investitori che in realtà sapevano benissimo di giocare con il fuoco. Speravano però che il genio trentenne spettinato che a ottobre ancora “valeva” 26 miliardi di dollari di patrimonio personale, sapesse cosa stava facendo. Adesso che tutto è svanito in una bancarotta che ha bruciato almeno dieci miliardi di risparmi in un settore ancora privo di regole e di strumenti di salvataggio, l’interrogativo dominante è il consueto “come è potuto succedere”. In attesa che emergano le risposte, è interessante però capire cosa c’è di uguale e di diverso rispetto a tanti altri crack americani. E cosa unisce e divide Bankman-Fried da altri tech whiz kid che sono finiti in niente oppure ce l’hanno fatta.

 

Di crolli improvvisi l’America ne ha sempre visti tanti, anche se il Ventunesimo secolo sembra aver accelerato il fenomeno. Il millennio si era aperto con l’esplosione della bolla “Dot-Com” che, a guardarla oggi, sembra piena di ammonimenti che andrebbero colti da chi investe con entusiasmo e un po’ di incoscienza nelle criptovalute. Tra il 1995 e il 2000 il Nasdaq, l’indice dei titoli tecnologici, era cresciuto del 400 per cento per effetto di una corsa folle all’acquisto di azioni di aziende che spesso erano appena nate o non avevano neppure un ufficio. Era esploso Internet, non si sapeva ancora bene cosa fosse ma bastava aprire un sito web con un dominio .com e in qualche modo partivano gli affari. C’era denaro a tassi d’interesse bassi per tutti e si correva a investire in aziende e titoli che promettevano soldi facili. Nel 1999 dodici società che avevano iniziato l’anno al Nasdaq con un valore del titolo di almeno 5 dollari erano cresciute oltre il mille per cento in un anno. Non solo startup sconosciute: Qualcomm, un colosso dei microchip, per effetto del boom che stava vivendo il digitale era cresciuta del 2.619 per cento. Investivi mille dollari in azioni Qualcomm e nel giro di un anno eri milionario. All’edizione 2000 del SuperBowl, la vetrina dell’America e l’evento televisivo più seguito dell’anno, un terzo dei 61 preziosi e costosissimi spazi assegnati per gli spot era andato a startup ancora sconosciute e spesso destinate a sparire.   

 

Ovvio che non poteva durare e non durò. A marzo 2000 l’indice Nasdaq toccò il massimo, a 5.048 punti. Il 14 aprile arrivò la prima frenata, con un crollo del 9 per cento in una sola seduta. Esplose la bolla, cominciò il precipizio, accelerato l’anno dopo dall’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Quando le cose si stabilizzarono, nel 2002, il Nasdaq era sceso a 1.114 punti, con una perdita del 78 per cento rispetto al picco del 2000. 

 

Ma a fregare gli investitori non erano, allora come oggi, solo le nuove società con i loro geni ragazzini. Nel dicembre 2001, mentre il Nasdaq andava a picco e l’America cercava di riprendersi dall’11 settembre, a dichiarare improvvisamente bancarotta, un po’ come oggi ha fatto Ftx, fu il colosso energetico Enron. Una realtà che sembrava solidissima, con il suo grattacielo dedicato a Houston e ricavi per 101 miliardi di dollari dichiarati solo un anno prima. Eppure era tutto marcio, c’era un sistema di gestione interno che era una sostanziale associazione a delinquere, dove un gruppo di top manager avevano costruito un castello di carte basato sulla frode. Fu un collasso che fece vacillare Wall Street, seguito a ruota da un’altra bancarotta fraudolenta, quella del gigante delle telecom WorldCom e dalla scomparsa della società che avrebbe dovuto vigilare sui conti di entrambe, la Arthur Andersen.

 

Passarono pochi anni e fu la volta della bolla dei mutui subprime e dell’ennesima perdita di controllo del sistema finanziario, che in breve tempo portò a un’altra bancarotta eccellente, Lehman Brothers, la quarta maggiore banca d’investimenti del paese, e a un piano di salvataggio lacrime e sangue per tenere in piedi molte altre istituzioni sull’orlo della rovina. 
Come la crisi delle criptovalute ha fatto venire a galla le debolezze di Ftx e ne ha decretato la fine, così la crisi di Wall Street del 2008 fece emergere il più grande “schema Ponzi” della storia finanziaria americana: quello di Bernard Madoff. L’uomo che per decenni aveva custodito e fatto fruttare in modo sorprendente i tesori di alcune tra le più ricche famiglie del Paese, finì in manette nel dicembre 2008 e si rivelò per quello che era veramente: un truffatore senza precedenti, capace di mettere in piedi una frode nella quale aveva bruciato 65 miliardi di dollari che gli erano stati affidati.
L’America si era di nuovo interrogata e aveva messo in piedi una mole di iniziative per controllare meglio i flussi e i prodotti finanziari e per stabilire regole ferree per il controllo dell’operato dei manager. Si era cercato di rispondere ai casi Enron, Lehman e Madoff, ma mentre il Congresso, Wall Street e il suo braccio investigativo, la Sec, si concentravano sulla Corporate America e sui meccanismi di Borsa, erano tornati in azione i tech whiz kid. 

 

Qualcuno, come Mark Zuckerberg, creando problemi non finanziari, ma etici e politici, legati alla gestione dei dati del popolo di Facebook e a un uso discutibile degli algoritmi. Un fronte che presentava nuove sfide legislative, ma non provocava azioni penali: Zuckerberg era “colpevole” di aver arricchito troppo in fretta e in modo controverso i propri azionisti, non certo di averli ingannati.  
Ma era in arrivo anche una nuova generazione di “Tech Madoff”. Nei primi anni Dieci, per esempio, era esplosa la corsa a investire in una società che prometteva di rivoluzionare il mondo della sanità con tecnologie d’avanguardia, tra cui un dispositivo per fare da soli e in pochi secondi un esame del sangue. Si chiamava Theranos ed era stata fondata nel 2003 da Elizabeth Holmes, all’epoca diciannovenne. Una genietta che in poco tempo era riuscita a raccogliere 700 milioni di dollari da venture capitalist e investitori privati e che alla metà degli anni Dieci guidava una società valutata 10 miliardi di dollari, nonostante non avesse ancora messo niente in commercio. 

 

Holmes aveva costruito con cura la propria immagine. Girava per i talk show indossando sempre maglioncini neri stile Steve Jobs (o Marchionne) e imitando Zuckerberg (celebre per le proprie t-shirt) quando si trattava di rispondere alla domanda sul perché si vestisse sempre nello stesso modo: “Per avere una decisione in meno da prendere ogni giorno”. Un atteggiamento da manager senza distrazioni, impegnata a investire tutte le proprie energie nel salvare il mondo, che aveva conquistato – e ingannato – un numero sorprendente di pezzi da novanta carichi di esperienza. L’ex segretario di Stato George Shultz accettò un incarico in Theranos e presto lo raggiunsero, nel consiglio d’amministrazione della società, gente come Henry Kissinger, l’ex capo del Pentagono William Perry, l’ex leader dei Repubblicani al Senato Bill Frist, l’ex generale dei Marines Jim Mattis e vari ceo di grandi società. Tutti rimasti spiazzati nel 2015 quando un’inchiesta del Wall Street Journal svelò che la tecnologia promessa da Theranos non esisteva. In breve tempo la società andò in bancarotta ed emerse la verità sui raggiri e le falsificazioni su cui era stato costruito tutto il progetto. Pochi giorni fa Elizabeth Holmes è stata condannata a undici anni di carcere. 

 

Il campanello d’allarme del caso Theranos non è bastato a salvare l’America, e altri pezzi di novanta, dall’eterno fascino per il ragazzino geniale che sembra aver trovato la grande idea. Sam Bankman-Fried si è rivelato un altro falso tech whiz kid, non prima però di aver conquistato anche Washington con i suoi capelli spettinati e il look da spiaggia. Sembrava il volto buono del mondo cripto, quello che avrebbe permesso al Congresso e a Wall Street di trovare finalmente un modo di regolamentare un settore promettente, esplosivo, sicuramente destinato a cambiare le regole del gioco della finanza, ma fino a ora tenacemente impegnato a muoversi al di fuori di tutte le regole. 

 

Bill Clinton e Tony Blair, in giacca e cravatta, si erano fatti fotografare ai lati di Sam in maglietta e short, dopo aver parlato a un evento di Ftx organizzato alle Bahamas, dove Bankman-Fried aveva messo in piedi il proprio caotico quartier generale. I Democratici nella capitale lo avevano adottato e il giovane Sam era diventato uno dei maggiori finanziatori politici di Joe Biden. Merito anche della fiducia che forniva il suo pedigree di figlio di due noti professori di Stanford (Sam è nato nel campus californiano) e di studente prodigio dell’Mit, il Massachusetts Institute of Technology.   

 

Qui emerge un tratto che sembra differenziare il caso Bankman-Fried dai precedenti. I ragazzi prodigio nella storia americana ci sono sempre stati e nella maggioranza dei casi hanno fatto cose grandi, non truffe. Ma sono quasi sempre stati degli sconosciuti, spesso con situazioni familiari difficili, che sono emersi con la forza delle proprie idee e intuizioni. Sam è un privilegiato e in qualche modo un predestinato, uno da cui tutti si aspettavano qualche grande impresa (in effetti l’ha fatta, anche se poi si è rivelata una catastrofe, e ha l’età per compierne ancora se non finirà troppo a lungo in carcere). 

 

Non era così Steve Jobs, abbandonato dal padre, cresciuto con genitori adottivi e partito da un garage. Non lo erano Bill Gates, Jeff Bezos o Elon Musk, e neppure Zuckerberg per quanto fosse studente di un’università prestigiosa come Harvard. Non lo erano neppure i tanti altri tech whiz kid della storia americana, dall’eccentrico e bizzarro Thomas Edison al razzista e arrogante William Shockley, l’inventore del transistor. La Silicon Valley è piena di personaggi insoliti, come Andy Grove che per anni ha guidato il colosso Intel e che intitolò il proprio libro di regole di management “Soltanto il paranoico sopravvive”. Ma Grove era arrivato in America da ragazzino come profugo ebreo ungherese in fuga dal nazismo e si era costruito una carriera universitaria da solo. Sergey Brin e Larry Page, i due studenti che a fine anni Novanta avevano dato vita a Google, si erano inventati tutto nel solito garage californiano. 

 

C’è però qualcosa di più che deve far riflettere nel caso Ftx. Si potrebbe sostenere che i ragazzi geniali che hanno preceduto Bankman-Fried e che oggi gli vengono paragonati, per la capacità di creare realtà globali e produrre ricavi enormi, quasi sempre non lo hanno fatto per soldi, ma perché ossessionati da un’idea, da un prodotto, da un’innovazione da realizzare. Amazon, Google, Apple, Microsoft, Tesla e anche Meta, l’ex Facebook, sono realtà di tipo industriale, hanno le loro regole di governance, rispondono alle logiche del mercato, hanno controlli e vengono tenute sotto i riflettori dagli analisti, dai media, dal Congresso, dalla Sec. I loro fondatori sono gli uomini più ricchi del mondo, ma non sono partiti dal “problema” di far tanti soldi e in fretta. 

 

Sam Bankman-Fried appartiene a una “generazione cripto” che mette la tecnologia al servizio della creazione non di prodotti, ma di criptovalute. Denaro facile e non controllato, in un settore senza troppi riflettori e dove si creano fortune immense e in fretta. La velocità con cui brand fino a ieri sconosciuti sono diventati i principali sponsor dei circuiti di Formula 1, di grandi stadi di calcio o arene della Nba e i protagonisti degli spot del Super Bowl, dovrebbero quantomeno far tornare alla memoria gli anni della bolla Dot Com.  

 

C’è una parvenza di nobiltà nelle finalità che sembrano muovere i vari Bankman-Fried. Come quando Sam aveva spiegato di essere un seguace del movimento “dell’Altruismo efficace”, che professa la necessità di fare soldi in fretta con la tecnologia per poterli poi donare in beneficenza. Ammesso che sia vero, Sam e il resto della banda di Ftx alle Bahamas avevano messo in piedi un colosso di carta che assomiglia più alla Enron e alle pratiche di Madoff, che non a una istituzione con fini benefici. Lo ha detto con chiarezza il nuovo ceo chiamato a liquidare Ftx, John Ray III, che è già stato in passato il liquidatore proprio della Enron: “Nella mia carriera, non ho mai visto un così completo fallimento dei controlli aziendali e una così completa assenza di informazioni finanziarie affidabili come in questo caso”. 
La domanda adesso è: quanti altri Bankman-Fried e quante altre Ftx ci sono là fuori, soprattutto nel mondo cripto?

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