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La fase 2 del web si chiama responsabilità

Eugenio Cau

Per la prima volta Twitter frena Donald Trump (che minaccia di chiudere tutto) e inaugura una nuova stagione in cui i social network hanno capito che non sono attori inerti, ma ancora non sanno come agire

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Milano. Quando per la prima volta Twitter ha messo un punto esclamativo sotto a due tweet di Donald Trump e ha segnalato come fuorvianti le affermazioni del presidente americano, collegando il tweet a una pagina di fact checking, il social network ha superato una soglia che nessuno aveva mai oltrepassato, e ha dato inizio alla fase due del rapporto tra internet e politica, quella – finalmente – della responsabilità. Ma quando Trump, per tutta risposta, ha scritto sempre su Twitter che potrebbe “regolamentare con forza o chiudere” i social network che si oppongono ai repubblicani, è diventato chiaro che questa fase due sarà durissima, farà arrabbiare molti e probabilmente farà qualche vittima, almeno dal punto di vista del business. 

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Milano. Quando per la prima volta Twitter ha messo un punto esclamativo sotto a due tweet di Donald Trump e ha segnalato come fuorvianti le affermazioni del presidente americano, collegando il tweet a una pagina di fact checking, il social network ha superato una soglia che nessuno aveva mai oltrepassato, e ha dato inizio alla fase due del rapporto tra internet e politica, quella – finalmente – della responsabilità. Ma quando Trump, per tutta risposta, ha scritto sempre su Twitter che potrebbe “regolamentare con forza o chiudere” i social network che si oppongono ai repubblicani, è diventato chiaro che questa fase due sarà durissima, farà arrabbiare molti e probabilmente farà qualche vittima, almeno dal punto di vista del business. 

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I fatti: martedì Trump, in una delle sue ondate twittarole, ha scritto sul social network che il voto via posta è fraudolento e avrebbe inficiato le elezioni presidenziali di novembre. Gli americani votano via posta da sempre, e molti stati stanno potenziando il servizio per via del coronavirus, ma il presidente teme che questo penalizzi le sue possibilità di rielezione e per questo da giorni fa campagna contro. Qualche ora dopo sotto i due tweet appare il punto esclamativo. “Get the facts about mail-in ballots”, si legge, e cliccando si apre una pagina messa assieme da Twitter usando fonti autorevoli in cui si dice che Trump ha fatto affermazioni non fondate. Ecco il momento storico: per la prima volta, un social network ha messo un paletto alle dichiarazioni irresponsabili del presidente americano, che negli ultimi anni ha usato Twitter per minacciare, incitare alla violenza, insultare, diffondere notizie false e che soltanto poche ore prima aveva falsamente accusato di omicidio un giornalista.

 

Con la sua decisione, Twitter ha posto fine a un decennio di neutralità fasulla da parte delle piattaforme web. Potremmo chiamarla “fase uno”, quella in cui Facebook, Google, Twitter e gli altri hanno tentato in tutti i modi di far passare l’idea che loro non hanno nessuna responsabilità su quello che avviene nel mondo, e soprattutto su ciò che scrivono gli utenti. Le piattaforme hanno sempre evitato di intervenire sul dibattito che si svolgeva al loro interno, dicendo che “non siamo noi gli arbitri della verità”. Ma questa posizione negli anni è diventata sempre più insostenibile. Lo si era già capito nel 2016, con le interferenze russe nelle elezioni in occidente, ed è diventato chiaro a tutti con il coronavirus. Davanti alla pandemia globale, lasciare che notizie false si diffondessero indisturbate avrebbe potuto provocare danni immani. Così le piattaforme si sono assunte le loro responsabilità. Hanno cambiato gli algoritmi per favorire i contenuti delle autorità sanitarie, sono state durissime contro le bufale pericolose, e così è arrivata la fase due, inaugurata da Twitter: le piattaforme hanno capito che la neutralità è un feticcio e che la responsabilità è necessaria, altrimenti il business diventerà insostenibile. Il problema è che ancora non sono sicure di quale sia il modo migliore di esercitarla, questa responsabilità.

 

Lo stiamo vedendo con il fact checking a Donald Trump. Fornire informazioni affidabili per controbilanciare le falsità del presidente è un’ottima iniziativa in linea di principio, ma come gestire un utente che diffonde informazioni false o parzialmente false in continuazione, e che è anche l’utilizzatore più famoso del servizio? Correggerlo ogni singola volta? Così si finisce a fare la lotta nel fango con le istituzioni americane, Trump e la sua campagna elettorale hanno già detto che l’iniziativa di Twitter è una violazione della libertà d’espressione (non è vero) e una congiura liberal contro le opinioni dei conservatori. Il rischio è quello di polarizzare ulteriormente il dibattito, e di entrare in uno scontro cruento: Trump non ha il potere di chiudere Twitter ma potrebbe rendergli la vita molto difficile. E per i social è quasi impossibile evitare l’impressione che esista un bias anticonservatori: le ricerche, da ultima una interna a Facebook pubblicata dal Wall Street Journal, hanno mostrato che in media negli Stati Uniti (come in Italia) le fake news sono state abbracciate soprattutto dalla destra populista, che dunque sarebbe più penalizzata della sinistra. Non è così in tutto il mondo: nel Regno Unito, fino a pochi mesi fa, le armate di troll obbedivano alla sinistra becera di Jeremy Corbyn. Inoltre, estendere il fact checking a centinaia di milioni di utenti (o miliardi, nel caso di Facebook) è tecnicamente infattibile.

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E dunque Twitter, seppure con buone intenzioni, potrebbe essersi infilato in un tunnel da cui è difficile uscire, perché un conto è capire che bisogna essere responsabili, un altro è esserlo per davvero. Speriamo che le piattaforme non ci mettano altri dieci anni a capire come fare.

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