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La tecnologia per tracciare il virus

Eugenio Cau

Come funziona la versione italiana della “mappa del Covid-19” (e la privacy?)

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Milano. Modello singaporiano, modello taiwanese, modello sudcoreano: in Italia cresce il consenso attorno a operazioni di sorveglianza dei movimenti delle persone per prevenire i contagi da coronavirus, “abbattere la curva” con maggiore efficienza ed evitare, una volta che il lockdown sarà finito, che nascano nuovi focolai. Scienziati ed economisti lanciano appelli ricordando le “tre T” dell’Oms: trace, test and treat, dove la prima T sta per rintracciare, e dunque sorvegliare. Il governo sembra recettivo all’idea. Gli attivisti per la privacy sospirano, ché qualsiasi operazione di tracciamento significa comunque una compressione dei diritti personali, che va resa più piccola possibile. Ma tutti guardano alla Corea e a Taiwan, dove non c’è lockdown e dove i casi sono in riduzione (Corea) o pochissimi (Taiwan) e pensano: dobbiamo fare come loro, dobbiamo creare un’infrastruttura tecnologica che ci consenta di tenere a bada il virus caso per caso. C’è una manciata di progetti, tutti di privati, che attualmente sono in fase di sviluppo. Quello più completo, e più vicino a essere realizzabile, è di un consorzio di quattro aziende del settore tecnologico e sanitario, che assieme hanno creato una no profit.

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Milano. Modello singaporiano, modello taiwanese, modello sudcoreano: in Italia cresce il consenso attorno a operazioni di sorveglianza dei movimenti delle persone per prevenire i contagi da coronavirus, “abbattere la curva” con maggiore efficienza ed evitare, una volta che il lockdown sarà finito, che nascano nuovi focolai. Scienziati ed economisti lanciano appelli ricordando le “tre T” dell’Oms: trace, test and treat, dove la prima T sta per rintracciare, e dunque sorvegliare. Il governo sembra recettivo all’idea. Gli attivisti per la privacy sospirano, ché qualsiasi operazione di tracciamento significa comunque una compressione dei diritti personali, che va resa più piccola possibile. Ma tutti guardano alla Corea e a Taiwan, dove non c’è lockdown e dove i casi sono in riduzione (Corea) o pochissimi (Taiwan) e pensano: dobbiamo fare come loro, dobbiamo creare un’infrastruttura tecnologica che ci consenta di tenere a bada il virus caso per caso. C’è una manciata di progetti, tutti di privati, che attualmente sono in fase di sviluppo. Quello più completo, e più vicino a essere realizzabile, è di un consorzio di quattro aziende del settore tecnologico e sanitario, che assieme hanno creato una no profit.

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Le aziende sono Bending Spoons, leader internazionale nella progettazione di app, Jakala, che fa marketing digitale e che da 20 anni fa la mappatura strada per strada del territorio italiano, Geouniq, che ha sviluppato un sistema di eccellenza per la rilevazione della posizione dello smartphone, e il Centro Medico Sant’Agostino, che è una delle realtà più importanti della sanità privata italiana. Queste quattro hanno creato una no profit e hanno presentato al governo un sistema che, dicono al Foglio Luca Ferrari di Bending Spoons e Marco Santambrogio di Jakala, è praticamente pronto all’uso e potrebbe diventare un modello internazionale. Il progetto potrebbe essere formato da due elementi: una app per i cittadini, da scaricare senza obblighi (ma con vantaggi per chi la usa), e un sistema di analisi raffinato messo a disposizione dello stato e della comunità scientifica. Funziona così: il signor Rossi, che abita a Milano, scarica la app (creata da Bending Spoons) e come prima cosa gli viene chiesto di compilare un questionario medico sulle sue condizioni di salute (creato dal Centro Sant’Agostino). Non deve fornire informazioni specifiche, non gli verrà chiesto nemmeno il nome o numero di telefono: soltanto i sintomi (febbre, tosse) ed eventualmente sesso e fascia d’età. A quel punto, in un programma che sarà messo a disposizione delle istituzioni (per amor di esempio: la Protezione civile), apparirà un pallino sulla mappa che corrisponde al signor Rossi. E’ anonimo, perché la app non ha chiesto il nome né i codici identificativi che di solito vengono usati nel web marketing (quei sistemi che consentono a Facebook di farci vedere la pubblicità personalizzata). Invece i dati sulla localizzazione del telefono vengono raccolti (questo è il lavoro di Geouniq), e il puntino senza nome del signor Rossi si muove nel sistema della Protezione civile. Mettendo assieme tutti i pallini che corrispondono a chi ha scaricato la app e aggiornato il proprio stato di salute, è possibile così creare una mappa in tempo reale di come si muovono le persone, contagiate e non. Il sistema, dicevamo, è molto sofisticato (questo è il lavoro di Jakala), riesce a mappare chiese, negozi e abitazioni e a fornire alle autorità informazioni granulari e precise: potenzialmente, quando sarà il momento di allentare il lockdown, la Protezione civile potrebbe perfino essere in grado di scaglionare le riaperture condominio per condominio, ufficio per ufficio, in base alle probabilità di rischio. Ci sono altri sistemi attualmente in gioco, per esempio un imprenditore di Sondrio e uno di Molfetta hanno presentato le loro app, ma la no profit dei quattro sembra avvantaggiata e ha ricevuto una lettera di patrocinio dal ministero dell’Innovazione.

 

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Queste app promettono pieno rispetto di tutte le normative sulla privacy (e il Gdpr consente eccezioni sui dati sanitari in caso di emergenza), ma è chiaro che se già ci sono polemiche attorno all’utilizzo dei dati anonimi e aggregati delle celle telefoniche da parte della regione Lombardia (dati troppo generici per un vero tracciamento), app come quelle di cui si parla in questi giorni sono un passo verso una riduzione consistente della privacy. Il garante Antonello Soro per ora è attendista, ma intanto Giuseppe Vaciago, avvocato di esperienza internazionale su questi temi che collabora con la app delle quattro aziende, dice al Foglio che “stiamo lavorando intensamente per garantire la privacy del progetto, ma la compressione dei diritti fondamentali è tale che solo un intervento governativo può garantire la sua fattibilità”, che significa: serve una deroga esplicita alle regole sulla privacy.

 

Questo senza contare che l’infrastruttura tecnologica non basta. “Serve un processo complesso di ordine normativo, sanitario e tecnologico”, dice al Foglio Carlo Alberto Carnevale Maffé, che da settimane è uno dei sostenitori più convinti del sistema sudcoreano: senza test mirati alle catene di contagio, per esempio, non c’è tracciamento che tenga.

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