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Serie A

Il Napoli deve mettere da parte la scaramanzia e vincere lo scudetto

Giuseppe Pastore

La squadra di Spalletti batte 0-1 la Roma all'Olimpico. Gioca bene e vince. Dopo quasi il 30 per cento di campionato è la grande favorita per il titolo. Deve solo sperare che la pausa Mondiale non scompagini troppo i valori in campo

Victor Victoria: il Napoli sbanca l'Olimpico per la seconda volta in stagione, come ha fatto con San Siro, l'Amsterdam Arena, Ibrox Park, il Bentegodi, lo Zini di Cremona. Lo fa indossando di nuovo il vestito classico, la vittoria di misura senza subire gol, attitudine che dalle nostre parti determina la forza e la tempra di una squadra molto più di un filotto di abbuffate contro squadre di bassa classifica. Lo fa con una fiammata accecante di Osimhen che per facilità d'esecuzione, risultato, importanza della partita e somiglianza estetica ricorda molto da vicino un gran gol di Ruud Gullit nella stessa porta sotto la Curva Nord, in un Roma-Milan 0-1 del 3 gennaio 1993. Certamente il Napoli di Luciano Spalletti non è ancora Invincibile come il Milan di Capello, anche se undici vittorie di fila e quindici risultati utili consecutivi (che diventano 19 se consideriamo anche la coda della scorsa stagione) non si sono messi in fila da soli. Soprattutto non possiede ancora la spavalderia che deriva dall'aver già vinto, tanto che nelle interviste post-partita nessuno, nemmeno i ciarlieri Spalletti e Juan Jesus, ha avuto il cuore di pronunciare la parola “scudetto”. Ma sono umanissime macchioline su un affresco fin qui sontuoso oltre ogni previsione, che ci obbliga a considerare il Napoli, dopo quasi il 30 per cento di campionato, la grande favorita per il titolo. E lo sarebbe ancora di più se non ci fosse la mega-pausa Mondiale che a gennaio 2023 ci riconsegnerà una Serie A a quel punto tutta da decifrare.

   

Mourinho aveva suppergiù approntato lo stesso piano-gara dell'anno scorso, quando alla nona giornata aveva imposto lo 0-0 a un Napoli reduce da otto vittorie consecutive, via via arretrando fino a piazzare il proverbiale autoblindo nel finale. Con qualche piccolo correttivo, come la promozione del dinamico Camara al posto di Matic per non far banchettare in mezzo al campo Lobotka e soci troppo agevolmente, i conti stavano tornando fino all'esitazione fatale di Smalling, fin lì perfetto nonostante il cartellino giallo sul groppone. Anche se il Napoli aveva comunque avuto più palle gol rispetto alle zero occasioni della Roma, a quel punto lo 0-0 sembrava lo sbocco naturale, incoraggiato anche dalla direzione di Irrati degna di un congresso della Democrazia Cristiana anni '70: e invece Osimhen. Il Napoli ha legittimato la vittoria con una gestione dell'ultimo quarto d'ora impeccabile: sarà stato anche vero che la Roma a quel punto era stremata, come da curioso alibi di Mourinho sfoderato alla fine dell'unica settimana senza impegni infrasettimanali, ma negli ultimi 15 minuti s'è vista l'enorme differenza tra la profondità della rosa del Napoli e gli arrangiati rattoppi di quella della Roma, dove si distingue in negativo un Belotti sempre più autunnale, che purtroppo prosegue nella regressione anzitutto estetica in mediano di fatica, già iniziata ai tempi del Torino. Ma al di là di Osimhen resta la sensazione che quest'anno la Roma interpreti i big match con un'intensità nervosa molto superiore all'anno scorso, condizione ideale per costruire i monumenti al cinismo che hanno reso Mourinho un divo internazionale: i quattro punti in trasferta contro Juve e Inter parlavano già chiaro, e generalmente il “saper soffrire” porta lontano - magari con qualche idea offensiva più evoluta della semplice attesa di un calcio piazzato, come ha fatto la Roma per tutto il secondo tempo.

   

Ovviamente il Napoli di Spalletti è molto più avanti in tutto – e sottolineiamo “di Spalletti”, perché gli altri due Napoli scudettati della storia sono passati agli annali come “il Napoli di Maradona”, con l'ingiusta sottovalutazione di Ottavio Bianchi e Albertino Bigon che dovevano smazzarsi se non altro la difficilissima gestione del calciatore più forte della storia. Spalletti non ha Maradona, non ha voluto Ronaldo e non aver più l'ingombro dei grandi vecchi usciti tutti insieme dallo spogliatoio a maggio gli ha fatto miracolosamente vedere chiaro in tutto: come il Milan ma più del Milan, il Napoli non ha solo una o due strategie per andare a dama, ma riesce sempre a trovare il modo. Un richiamo alla responsabilità collettiva che Spalletti urla forte e chiaro quando sullo 0-0, invece che Raspadori o Simeone, manda in campo Gaetano, solo un quarto d'ora in campionato fin qui. Mourinho era riuscito a incastrare Kvaratskhelia, al primo big match floppato in stagione, ma ha dovuto bruciare troppi cartellini gialli per arginare la forza quieta del Napoli, un allegro torrente di montagna che scappa da tutte le parti, come dimostra la sassata tonante di Lozano – poi dileggiato da Mourinho – che Rui Patricio ha dovuto togliere da sotto l'incrocio. E scommettiamo che qualcuno, magari dopo il primo erroraccio di Victor solo davanti al portiere, aveva già pronto un paragrafo di considerazioni sul Napoli che “senza Osimhen gioca meglio” (ci scommettiamo perché quel qualcuno siamo noi), un po' come la Lazio senza Immobile – come no, andate a dirlo a Sarri. Ma è proprio questa la felicità del Napoli, il fatto che non si sa come prenderlo, né attaccandolo né piazzando il pullman. Ha uno spogliatoio in stato di grazia e non è casuale che dopo anni di protagonisti ed esposizioni mediatiche la fascia di capitano oggi vesta il braccio del mite, serissimo e impeccabile Giovanni Di Lorenzo, soprannominato “l'appuntato” da alcuni tifosi napoletani con una capacità di sintesi degna di Sepulveda.

   

È questa fiducia totale verso il Gioco, nient'altro che il Gioco – mai una polemica, una protesta sguaiata, una crisi di nervi – che rende il Napoli terribile agli occhi avversari proprio come la prima splendida Roma di Spalletti, versione 2006-2008, che Totti a parte aveva un solo insostituibile ovvero Pizarro, il Lobotka cileno. Ha già mandato in gol quindici giocatori diversi in quindici partite stagionali. Ha titolari apparenti che l'allenatore si diverte a mettere alla prova con la scusa perfetta del turnover, che tanto è a punteggio pieno pure in Champions. Fuori Rrahmani c'è Juan Jesus mai così pulito, fuori il colosso Anguissa è pronto Ndombele, fuori Mario Rui ecco che emerge Olivera.

 

Un gruppo cosmopolita, cittadino del mondo: nell'undici titolare di ieri c'erano calciatori di dieci paesi e cinque continenti diversi. Il primo cambio è stato Elmas, a conferma dell'ottimismo tecnico che regna sovrano nel Napoli di Spalletti, giunto all'estate di San Martino della sua carriera. Anche gli unici due pareggi stagionali occhieggiano alla storia, che a Napoli fa presto a indossare la S maiuscola: il primo contro la Fiorentina, l'avversaria del primo scudetto (10 maggio 1987, “che vi siete persi”), il secondo contro il Lecce di Marco Baroni, l'uomo del gol del secondo scudetto (29 aprile 1990) dopo estenuante volatona con il Milan. Su queste righe i napoletani molleranno il telefono per stringere alcune loro proprietà ben più preziose di uno smartphone. Ma in realtà, fatto salvo l'enorme rispetto per la cultura e le tradizioni che rendono Napoli tanto inimitabile, a questo punto la scaramanzia non è solo inutile ma anche un po' patetica. E poi, che cos'ha portato al Napoli la scaramanzia negli ultimi trent'anni?

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