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la repubblica del pallone

Così si intrecciano calcio e Quirinale

Fulvio Paglialunga

Dall’aplomb dello juventino Einaudi all’esultanza di Mattarella a Wembley. Fra tifo appassionato e pubbliche scaramanzie, al Colle il calcio si guarda eccome. Le eccezioni, più uniche che rare

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Forse Francesco Totti è stato il calciatore più votato come presidente della Repubblica. Sette anni fa, al primo scrutinio, prese cinque voti. Non validi, perché aveva trentanove anni e ne servono almeno cinquanta. Infatti Laura Boldrini non lesse nemmeno il nome: “Non ha l’età” – una parentesi da Gigliola Cinquetti nell’emiciclo più importante d’Italia –  e poi andò avanti. Due anni prima, nelle votazioni che portarono al bis di Napolitano, qualche grande elettore scrisse sulla scheda il nome di Giovanni Trapattoni e tutto sommato non sarebbe stata una cattiva idea.

Qui, dove il pallone comanda sulla Repubblica, in modo peraltro legittimo perché non conosce astensione, questi sono i giorni in cui ci si chiede se al Colle andrà il romanista Mario Draghi, il padre del Milan degli invincibili (esatto: Silvio Berlusconi) o qualche outsider. Di certo Sergio Mattarella si è sgolato per smarcarsi dal bis, anche usando il pallone, dopo la vittoria dell’Europeo: “Spero che nel 2022 quello che sarà il mio successore possa festeggiare il mondiale come Pertini nell’82 e Napolitano nel 2006”. Il suo settennato calcistico si chiude con quell’immagine diventata meme di un’esultanza composta, fulminea, ma evidentemente gioiosa al gol del pareggio di Bonucci, a Wembley. E con lo scudetto della sua squadra, mai sventolata ma nota. Nato a Palermo, Mattarella tifa per l’Inter e dalle parti dei nerazzurri lo sanno così bene da aver fatto gli auguri su Twitter al “grande tifoso” quando ha compiuto 78 anni. Ma resta palermitano e il fratello Antonio giura che, in caso di sfida tra Palermo e Inter, Sergio tiferebbe per un pareggio. Anche perché già una volta è stato rimproverato: dopo il messaggio di fine anno del 2019 (il Palermo, escluso dai campionati professionistici, era finito in D), Ficarra e Picone twittarono: “Anche quest’anno Mattarella nel suo discorso di fine anno ha parlato dei giovani, dell’ambiente, delle donne, del lavoro e nessuna parola sul Palermo in serie D”. Mattarella li chiamò, ridendoci su: “Avessi parlato della situazione del Palermo avrei rattristato gli italiani”.
Quando questa faticosa avventura sarà finita, Mattarella potrà fare finalmente a meno di mettere insieme maggioranze nel Parlamento più strambo degli ultimi decenni e forse tornerà a ripassare a memoria le formazioni di calcio storiche. Nelle cene tra democristiani, infatti, sfidava un altro moroteo come Leopoldo Elia per vedere chi ne ricordava di più. Spesso, però, perdeva.

Nella storia dei presidenti della Repubblica del pallone prima o poi il calcio irrompe. O, a volte, va al contrario: il 3 novembre 1993, la diretta di Cagliari-Trabzonspor di Coppa Uefa venne interrotta alle 22.30 per un discorso a reti unificate di Oscar Luigi Scalfaro. Fu quando il capo dello Stato pronunciò il celebre “Io non ci sto”, in piena Tangentopoli e per rispondere ai colpi di coda della Prima Repubblica, compreso il sospetto di intascare fondi del Sisde. Il Cagliari di Oliveira, Moriero, Matteoli e Dely Valdes pareggiò 1-1 garantendosi gli ottavi di finale, e l’interruzione, più che un episodio casuale, quasi tradisce il rapporto di Scalfaro con il calcio. Più volte perplesso per “un movimento di persone che porta a quotazioni di montagne di miliardi”, durante le celebrazioni per i cento anni della Figc Scalfaro invitò a riportare il mercato dei calciatori “in un senso di logica che non sia scandalizzante”.  Non volò a Pasadena per la finale di Usa ’94 contro il Brasile e non ricevette al Quirinale la squadra vicecampione del Mondo, al rientro, e questo fa sembrare dirette anche a lui le parole di Arrigo Sacchi che, anni dopo, disse: “Si parla poco del nostro secondo posto, è un fatto politico. Alcuni partiti all’epoca dicevano di parlare male della Nazionale. Noi non siamo cavalieri del lavoro anche per questo”. Nei giorni di Pasadena Scalfaro era il presidente della Repubblica, Berlusconi – di cui Sacchi è creatura – il presidente del Consiglio.

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Contro i soldi del calcio tuonò anche Carlo Azeglio Ciampi, mentre consegnava la bandiera dell’Italia a Juri Chechi prima delle Olimpiadi di Atene. Ci vide giusto, diciassette anni fa: “I danari dei diritti televisivi rischiano di essere una droga che uccide il calcio italiano”, ma era l’urlo di un romantico appassionato, non di uno sprezzante burocrate. Ciampi tifava Livorno e nel 2004, da capo dello Stato, andò al Picchi per la prima interna in Serie A, categoria che gli amaranto rivedevano dopo 55 anni. Era stato allo stadio l’ultima volta negli anni 40 “ma non potevo perdermi l’avvenimento”. E’ stato il presidente che ha convinto gli azzurri di calcio a cantare l’inno prima delle partite (“Ricordatevi che è l’inno del risveglio degli italiani, che li ha portati alla libertà”), seccato per aver visto nella finale degli Europei in Belgio e Olanda del 2000 (lui ci andò) solo Toldo e Delvecchio pronunciare le parole di Mameli. E quando il Livorno compì settant’anni di vita augurò alla squadra di non dimenticare i tempi in cui giocava sul campo di Villa Chayes. Lo spirito di Villa Chayes, lo chiamò, quello che aveva fatto nascere il calcio livornese “prima che diventasse così diffuso da creare la necessità di avere uno stadio vero e proprio”.

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Meno romantico era Luigi Einaudi, dichiaratamente juventino, padre di una frase senza equivoci: “Tutti nasciamo spontaneamente virtuosi, intelligenti, liberali e juventini. Taluni, poi, crescendo si corrompono e diventano imbecilli, interisti o milanisti”. E se le tragedie del calcio sono anche le tragedie di un popolo, soprattutto del nostro, è significativo che il presidente della Repubblica sia stato allo stadio di Firenze il 22 maggio del 1949, con l’Italia ancora in lacrime per la tragedia di Superga e orfana del Grande Torino per la prima partita degli azzurri, reinventati da Ferruccio Novo (prima dello schianto dell’aereo dei granata la formazione titolare era quasi interamente formata da torinisti) contro l’Austria. Einaudi andò allo stadio per stringersi agli azzurri con la fascia nera al braccio. Sui diari del Quirinale quel momento è descritto così: “Il Capo dello Stato accede alla tribuna d’onore accolto dalle prime note dell’Inno di Mameli e dagli applausi della folla. (…) La signora Einaudi, insieme alle altre signore, prende posto nel lato destro della stessa tribuna”. Ed è stato Einaudi il presidente della Repubblica presente all’inaugurazione dello stadio Olimpico, il 19 maggio del 1953, con il suo bastone nella mano destra e il cappello tenuto con la sinistra e agitato per salutare la folla. Accanto a lui, la moglie e un giovane Giulio Andreotti.

Allo stadio andava anche Antonio Segni, che è stato presidente della Repubblica e presidente (onorario) della Torres, la squadra di Sassari per cui faceva il tifo. Nelle storie che arrivano dalla Sardegna ce n’è una singolare: parla della sfida Torres-Cagliari del 4 marzo 1962, in serie C, e di una foto con i due capitani Marzio Lepri e Umberto Serradimigni uno di fronte all’altro e tra loro cognati, perché sposati con le due figlie di Tonino Maccari, presidente della Torres. Sugli spalti dello stadio Acquedotto c’erano quindicimila spettatori, tra cui Antonio Segni, che due mesi dopo sarebbe diventato capo dello Stato. La Torres, adesso in D, gioca le partite nello stesso stadio di allora, che è stato ammodernato e ha un altro nome: si chiama “Vanni Sanna” e si affaccia su piazzale Antonio Segni.

Per spiegare il rapporto con il calcio di Giovanni Leone, invece, basta citare l’attimo del suo congedo. Oggetto di una campagna di insinuazioni, il 15 giugno del 1978 riceve Giulio Andreotti, presidente del Consiglio, e Benigno Zaccagnini che gli chiedono di dimettersi, a poco più di sei mesi dalla fine del mandato. Leone dice di sì: “Grazie, ora potrò vedermi i Mondiali in santa pace”. Era tifosissimo del Napoli e, raccontano, poco capace di contenersi durante le partite, che spesso vedeva allo stadio con un cornetto rosso portafortuna nella tasca. La passione per il calcio aveva contagiato anche suo figlio Giancarlo, affascinato dalla Lazio di Maestrelli e Chinaglia (che nel 1974 furono anche ricevuti al Quirinale) al punto da riuscire ad allenarsi più volte a Tor di Quinto con i suoi idoli, con i giornali che riportavano le foto del giovane figlio del presidente della Repubblica marcato da Wilson o intento a stringere la mano a Long John.
Furono i Mondiali argentini del 1978 quelli che Leone poté vedere in pace: un’Italia giovane e bellissima che non vinse, ma si preparò per farlo quattro anni dopo, in Spagna.

Il Mondiale dell’82, quello di Sandro Pertini. Del quale abbiamo tutti negli occhi le immagini dell’esultanza nella finale con la Germania, il “non ci prendono più” pronunciato sugli spalti e la partita a scopone sull’aereo di ritorno con Zoff, Causio e Bearzot, allenatore con il quale aveva un legame particolare (per dare una forma eterna a quell’amicizia le pipe di Bearzot e Pertini sono esposte, incrociate, al Museo del Calcio di Coverciano). Tifava Genoa quando era giovane, aveva una moglie torinese e juventina, ma prestò diventò solo tifoso della Nazionale. Da presidente della Repubblica ha anche partecipato (a gennaio del 1983) come ospite al Processo del lunedì di Biscardi, e ha risolto, con poche parole, una delle vicende più esplosive del calcio italiano, nell’estate del 1983. Dino Viola aveva acquistato Toninho Cerezo per la Roma, Lamberto Mazza aveva fatto il gran colpo per l’Udinese, annunciando Arthur Antunes Coimbra detto Zico, il “Pelè Bianco”, forse in quel momento il giocatore più forte di tutti. Ma il mondo sindacale e le istituzioni sportive si rivoltarono. Quello sindacale perché per Luciano Lama, segretario della Cgil, Mazza non poteva spendere sei miliardi da presidente dell’Udinese per un calciatore, mentre gli operai della sua azienda di elettrodomestici (la Zanussi) erano in cassa integrazione; le istituzioni sportive perché Federico Sordillo, presidente della Federcalcio, si scagliò contro l’arrivo degli stranieri e le spese folli del calciomercato, chiudendo le frontiere e bocciando entrambi i trasferimenti. Una questione che si scaldò (i tifosi dell’Udinese, manifestando al grido di “O Zico o Austria”, si dicevano di fatto pronti alla secessione) fino a quando, fuori dal Quirinale, chiesero a Pertini cosa ne pensasse: “Mi piacerebbe veder giocare Zico e Cerezo in Italia: sono due grandi campioni” e la questione finì lì, il Coni sciolse tutti i nodi della vicenda, il tesseramento dei due fu accettato e le stelle straniere arrivarono da noi.

Nel 2006, quando l’Italia ha vinto il suo quarto mondiale, nello spogliatoio è finito Giorgio Napolitano, come un azzurro qualsiasi, a festeggiare e a farsi un “un bagno di sudore e aranciata”. Prima che la finale di Berlino iniziasse, sapeva a cosa andava incontro e provò a invocare compostezza: “Non so se sono capace di saltare come Pertini. Non prevedevo di festeggiare i due mesi dalla mia elezione a presidente alla finale della Coppa del mondo”. Napolitano era stato eletto il 10 maggio e la sfida con la Francia si giocava il 9 luglio. Del suo rapporto con il calcio si parla più per la passione per la Lazio del figlio Giulio (che ha anche lavorato per la Figc per la riforma dello statuto), a volte così inconsolabile dopo le sconfitte da costringere il padre a lasciare in anticipo anche importanti riunioni del Pci.

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Sopra le righe, nemmeno a dirlo, Francesco Cossiga, terzino destro in gioventù e battitore libero una volta arrivato al Colle. Picconatore anche oltre il mandato, anche quando si esponeva sul calcio (che voleva provocatoriamente nazionalizzare con un disegno di legge che impegnava il Tesoro a pagare i superstipendi dei calciatori). Socio numero uno dello Juventus Club Parlamento, raccontano che diventò juventino per “contagio”, perché, da bambino, in convalescenza per via degli orecchioni, ricevette in dono cinque annate del “Calcio Illustrato” rilegate, ed erano cinque stagioni che avevano visto la Juve vincente e così decise che era meglio tifare per quella squadra lì. In ragione della sua fede, che ogni tanto provava a dissimulare, colui che fu il presidente della Repubblica di Italia 90 si scagliò contro Calciopoli con tutta la sua forza. Oltre alle interrogazioni su Guido Rossi, alle accuse e al sarcasmo, decise tanto per cambiare di evitare i giri di parole e scrisse a Franco Carraro, Diego Della Valle e Claudio Lotito una lettera che più chiara non si può: “Caro Franco, caro Diego, caro Claudio, non dovete preoccuparvi: la giustizia sportiva è una buffonata. Vi ho visti tutti infervorati a difendervi di fronte a questa ridicola pseudo-corte federale di giustizia sportiva dalle accuse di un certo esagitato signor Palazzi che crede forse di essere sul serio un magistrato. Ma non dovete preoccuparvi: la giustizia sportiva è una buffonata e io presenterò un disegno di legge in Senato perché essa venga statalizzata attribuendone la competenza a sezioni speciali dei giudici amministrativi. Per il resto, se date retta a me li mandate tutti a fare in culo”.

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Giuseppe Saragat ha potuto abbracciare l’Italia campione d’Europa del 1968 e quella vicecampione del mondo del ’70, ma ha avuto anche l’ingrato compito di consolare l’Italia sconfitta dalla Corea nel 1966 e tornata in patria accolta da lanci di pomodori (scrisse al capitano Sandro Salvadore per “ridimensionare una sconfitta al suo mero valore sportivo, che certamente non riguarda l’onore della Nazionale”). Si sa poco di Giovanni Gronchi, il presidente della Repubblica delle Olimpiadi di Roma del ’60, e anche di De Nicola. Ma il primo presidente della Repubblica fu deciso quando, in un momento di tensione, fu necessario riunire in una stanza i leader, per trovare un accordo. Al tavolo erano seduti Alcide De Gasperi, Pietro Nenni, Giuseppe Saragat e il calciofilo Palmiro Togliatti, uno che amava chiedere ai colleghi distratti il risultato della Juve per poi rispondere, di fronte ai tentennamenti, “e tu pretendi di fare la rivoluzione senza sapere il risultato della Juve?”. La nostra Repubblica è partita così, poi ha inseguito il pallone. Chissà chi sarà il prossimo presidente. E, soprattutto, per chi tifa.

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