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Uno non vale uno, specie a tennis e se è in discussione uno come Djokovic

Giuliano Ferrara

Intorno al caso del campione serbo si gioca la partita del riconoscimento. Il governo australiano ha dato alle masse il trofeo o lo scalpo del grande, del signore della pallina. Che spettacolo orribile da cultura ex galeotta

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Le persone assennate e di cuore sincero e umile non dovrebbero fare la claque per la banda di mediocri che ha ceduto alla falsa e spregevole idea della giustizia vaccinale, come se “la legge è uguale per tutti” fosse un brocardo facilmente trasponibile alle questioni sanitarie, a parte la sua intrinseca illogicità, e ha ristretto un eroe dei nostri tempi, che non si chiama Freccero ma Djokovic, in un budello per rifugiati, e Dio solo sa i crimini che la polizia di frontiera australiana, un esercito ipersalviniano di tutori armati della frontiera, ha compiuto contro rifugiati e immigrati in questi anni all’insegna del giustizialismo protezionista nazionale.

Quando questo articolo sarà stampato, lunedì, si saprà presumibilmente se ho il diritto di ammirare, vinca o perda, questo campione in lotta con Zverev, Tsitsipas e Berrettini, quest’uomo e semidio invidiato perché guadagna 154 milioni di euro l’anno e ha un sorriso strafottente, dice e non dice, frequenta male ma anche bene nella sua Patria e nel giro della sua fondazione benemerita. 

Forse diffida del vaccino come tanti altri atleti, con la differenza che il suo sport sembra fatto apposta per le pandemie virali: non è di contatto, nasce e muore a distanza fissa, basta una bolla alberghiera e di spogliatoio per rendere inoffensivo nei contagi chi lo pratica, e incanta e ipnotizza per ore noi pecore immuni del gregge che abbiamo bisogno e diritto di divagarci in mezzo ai noiosissimi strepiti no vax, ci facciamo le regolari punturine, e vorrei vedere, siamo un’immensa maggioranza, diamo giustamente la baia alla minoranza stolta, ma non per questo dobbiamo sentirci autorizzati da pecore a rompere i coglioni a chi tra i leoni non se le fa, gli diano cento euro di multa, se proprio ci tengono, e mi lascino guardare la partita in tv. La legge del tennis non è uguale per tutti. Il destino dei grandi atleti non appartiene all’etica di massa, ma all’estetica.

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Intorno al caso Djokovic si gioca la partita del riconoscimento: uno non vale uno, specie se questo uno è il numero uno da tempo immemorabile, uno non vale uno, se è in discussione una superstar, una stella rilucente, un incantatore di serpenti. Aveva avuto un’esenzione dalla società australiana del tennis e dallo stato di Victoria, quello stesso che in nome della legge uguale aveva cacciato in galera per un anno un cardinale numero tre del Vaticano imputandogli di aver violentato due chierichetti anonimi con una sveltina di cinque minuti alla fine della messa a Melbourne per l’inaugurazione della missione arcivescovile. Venuto a mancare, per vili e comprensibili ragioni di decoro, prestigio e denaro, il giustizialismo dello stato di Victoria, si fa avanti il governo federale e dà alle masse rincretinite dalla loro pochezza e medietà il trofeo o lo scalpo del grande, del signore della pallina. Che spettacolo orribile da cultura ex galeotta, la “riva fatale” e altre balle, a parte i vermi nella minestra, che non vanno bene per Nole come per tutti i rifugiati.

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Rimandare a casa un grande vuol dire tra l’altro darla vinta al virus, avvilire o imbastardire uno spettacolo tra i più belli del mondo, umiliare chi ama vedere come il punteggio tennistico superi di gran lunga, per ragioni anche morali, di lealtà e senso della sfida, quell’alluvione di numeri e numeretti che da due anni fa ombra al mondo, e tutto questo all’insegna di una legge draconiana che è tale solo nelle corti dei tribunali non nelle corti o courts dove si gioca felicemente a tennis.

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