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Nel nome di Piksi, la Serbia è entrata nel futuro

Francesco Gottardi

L'impresa regina di queste qualificazioni ai Mondiali è opera di una generazione nuova, forte e lontana dai traumi della storia. Con una leggenda nazionale alla guida: “Se lo dice Stojkovic, si fa”

Ricordate Bogdanov, i droni, tutte quelle promettenti spedizioni puntualmente implose? Ora la Serbia si è riscoperta leggera. “Da quando mister Stojkovic è con noi ci è tornato il sorriso. E la voglia di giocare a calcio”. Dusan Tadic, il capitano, aveva pronunciato queste parole prima della partita decisiva in Portogallo. Si è rivelata una sintesi lucida. Noi conosciamo bene cosa vuol dire toccare il fondo e risorgere: horror Svezia e poi Wembley, anche se Irlanda del nord alla mano, ora c’è un seguito inquietante. A Belgrado hanno maturato la loro versione, strappando il pass per il Qatar a Cristiano Ronaldo, sia pure al 90'. Una qualificazione insperata, a tratti addirittura insperabile per una nazionale che almeno fino a un anno fa era allo sbando.

12 novembre 2020. La Serbia raccoglieva i cocci di un’eliminazione bruciante, a domicilio, in quel mitologico Marakana che invece vide la modesta Scozia prendersi Euro 2020 ai rigori. Quello decisivo lo sbagliò Aleksandar Mitrovic, il primatista di reti (44) in Nazionale. La sua ultima oggi è valsa il Mondiale.

  

Nel mezzo è arrivato Piksi. Soprannome da cartoon di Hannah&Barbera a parte, più profeta in patria di lui non si può: 56 anni, ex fantasista, “il talento di Messi, Zidane e Ronaldinho in un sol uomo”, scrive Blic sport sull’onda dell’euforia – ma fino a un certo punto: mettere d’accordo i tifosi di Stella rossa e Partizan è impresa titanica, Dragan Stojkovic ci è riuscito e anche per questo è stato un giocatore fenomenale. Fino a nove mesi fa però era un allenatore esotico, sconosciuto: solo Cina e Giappone nel cv. Eppure la Serbia, dopo la débacle, ha puntato tutto su di lui. Lo benedì anche Dejan Savicevic, altro fuoriclasse di quella generazione divisa dalla storia e ora presidente della Federcalcio montenegrina: “Se c’è qualcuno che può tirare fuori il massimo dai calciatori, quello è Piksi”.

Spiega un giornalista di Belgrado, contattato dal Foglio: “Se Dragan dice di giocare con modulo 0-0-10, i suoi lo fanno. Se dice che la Serbia andrà in Qatar”, e l’ha ripetuto come un mantra a ogni conferenza, “loro si convincono di poterlo fare. È dai tempi di Radomir Antic che non trovavamo tanta energia positiva e autorevolezza in un Ct. Ma oggi ancora di più: Stojkovic è il nostro dio del calcio”.

 

Il tocco da moltiplicatore messianico s’è visto. Mitrovic era un attaccante in crisi profonda, dopo quel rigore. Tra club e nazionale aveva smesso di segnare. Poi arrivò Stojkovic, che lo difese mentre esplodeva la concorrenza – Vlahovic. Da marzo a oggi di gol ne ha fatti 29. È l’esempio clou di un gruppo rigenerato. E ringiovanito: due ragazzi del 2000-01, tutto il resto anni Novanta. Tranne Tadic, che è nato nel 1988, quando Piksi batteva la Francia di Platini portando ai Mondiali la Jugoslavia da giocatore. Era il leader della zlatna generacija, la generazione d’oro – pure Pancev, Prosinecki, Katanec –, l’ultimo lascito del “sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito”. Si infranse ai quarti, ai rigori contro l’Argentina di Maradona. E senza l’infortunio di Stojkovic – giocò comunque, sbagliando il suo – a Belgrado giurano che il mondiale italiano non sarebbe stato il cemento nazionale della Germania appena unita, ma quello della Jugoslavia sul punto di sgretolarsi.

 

Lo stesso Tadic era troppo piccolo per ricordare le immagini in tv dell’assedio di Sarajevo, 1992. Durante il massacro di Srebrenica, 1995, Sergej Milinkovic-Savic aveva pochi mesi. E Vlahovic doveva ancora nascere quando le forze Nato bombardarono Belgrado, 1999. Per la prima volta dai tempi di Piksi, la Serbia volerà a un grande torneo senza memorie della guerra. Ci è arrivata giocando anche fuori dal campo – tantissimo, a ‘Mafija’, rivela Mitrovic, “un gioco di gruppo per fare gruppo” che grazie ai calciatori pare abbia scatenato una mania popolare. E facendo tesoro di un percorso netto, frutto della programmazione: da Rajkovic a Veljkovic, molti dei ragazzi di Lisbona sono stati campioni d’Europa U19 nel 2013 e del mondo U20 nel 2015. Lungo il Danubio oggi si sottolinea soprattutto questo, lasciando il tempismo storico alle vie del caso.

E in fin dei conti si capisce. In una realtà che ha sempre visto il calcio legato a doppio filo alle vicende nazionali – per approfondire consigliamo la lettura di Notturno jugloslavo, di Emanuele Giulianelli e Paolo Frusca – e che nel calcio stesso ha vissuto l’estrema illusione di una pacifica convivenza – “in spogliatoio eravamo tutti fratelli”, ricorda Stojkovic –, da quel passato sinistro c’è tanta voglia di allontanarsi una volta per tutte. “E magari, in Qatar…” riprendere quel sogno interrotto a Firenze. Se dio, pardon, Piksi vorrà.

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