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il foglio sportivo

Tutti in piedi sul divano: Rossi c'è

Guido Meda

Il saluto di Guido Meda, il suo cantore: “Il segreto di Vale? Tra piangere e ridere è meglio ridere”

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La gara nella gara nel paddock di Valencia è quella di cercare, da qualche parte, prima o poi, una lacrima di Valentino Rossi. Perché stavolta è vero: è l’ultima. Finisce, è finita. Lui niente, come al solito: digerisce sereno uno via l’altro gli appuntamenti strappacuore che le persone e le giornate in pista gli stanno presentando. Il magone, latente o manifesto, c’è un po’ in tutti. Senza distinzione di marca, origine, tifo, nazionalità.

Dopo venticinque anni in cui ha dato tutto al suo sport non si riesce mica a immaginare questo posto senza Valentino Rossi. Non si riesce nemmeno a immaginare una gara senza lui al via. E non importa che quest’anno averlo o non averlo ai fini della classifica non facesse nessuna differenza; non importa nemmeno se dal 2009 il Mondiale non l’ha vinto più. C’è stato il disastro del 2015 con Marquez a sottolineare, nel profondo di quell’ingiustizia, che in Rossi grinta e tono da titolo erano ben presenti.

Tanto valeva continuare a ricordarlo così, da titolo, per sempre, fino al ritiro. Perché alla fine il personaggio lo merita davvero. In realtà sono poi arrivati solo podi e sporadiche vittorie. Il fatto è che Vale si porta addosso la capacità innata di lasciare il segno, proprio quello che vuole lui. E certi momenti della sua carriera ne hanno scavato uno talmente profondo da distorcere nel pubblico la percezione del tempo che è passato. Pensateci: il 90 per cento degli italiani associano a Valentino le scenette con cui festeggiava vittorie e titoli fino a ieri, quando sono quasi vent’anni che di scenette lui e il suo comitato creativo di amici goliardi non ne producono più

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Perché a un bel momento, quando ti vedi cresciuto abbastanza, è virtuoso se sai mettere un punto e adeguarti alle nuove responsabilità. Lo ha fatto, ed è stato facile come girare una pagina. Così va a finire che lo ricordi come uno allegro e cazzaro, ma anche maturo e professionale. Ecco fatto. Lo ha tenuto in piedi e ben saldo in questo mondo la maniera di guardare la vita con il suo corredo di casini. Non è mai stato uno di quei campioni complicati, con il mostro dentro, la rivalsa su un passato bastardo, il dolore lontano. La sua formula è semplice: tra piangere e ridere è meglio ridere. C’è un guaio? Vale si guarda intorno e ricorda che il bilancio è comunque positivo. C’è un’incazzatura da corsa? Si vive e si affronta in corsa, ma poi non si porta a casa, fatto salvo quel minimo fisiologico che tiene alta la carogna per il prossimo giro. La semina di Rossi qui è molto chiara a tutti. La ritrovi nei ragazzi che gli stanno crescendo attorno allevati in quella sua alternativa professionale che è l’Academy. Tra i suoi pilotini che emulano gli introversi si aprono, gli ombrosi si illuminano, i complessi semplificano, gli eccessivi moderano e Bagnaia vince.

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Il seguito, il dopo Rossi, almeno quello sportivo sembra essere in qualche modo garantito, con la differenza che per un altro Rossi Valentino proprio come quello servirà attendere, molto e magari invano. Qui tocca allora scendere nel personale e fare un esercizio di consapevolezza per arrivare a concludere banalmente che raccontare Rossi per vent’anni in tv è stato un gran colpo di culo. Ha semplicemente lasciato aperta la porta, rendendo leggibilissime le sue dinamiche, concedendo mezze ore di grande qualità non perché fosse un obbligo parlare con la televisione, ma perché poteva essere divertente farlo su una buona linea di sintonia e fiducia reciproche e naturali. Non ha dato e quindi non ha preso fregature. Ha generato un sentimento umano che è stima e bene e non si può nascondere. Non ha offerto presunzione gratuita, non ha fatto pesare la fama, ha trattato da pari, ha condiviso, magari ha contestato, ma non ha mai tranciato con arroganza. Con gli avversari, uno dopo l’altro, in compenso è stato proverbialmente feroce. “Ogni avversario – ha detto giusto un paio di settimane fa – diventava una questione personale”. 

Ed è su quel presupposto che ne ha date moltissime da diventare leggendario e qualcuna a un certo punto l’ha anche presa. Ha attraversato da cattivissimo almeno tre generazioni di cattivi, anche se oggi, tra tutti i ragazzi bravi e fair della griglia, è di gran lunga il più buono. Nel 2021 ha rigenerato il rapporto con Jorge Lorenzo che sembrava Belzebù, ha speso parole di sconfinata stima per Casey Stoner che quando erano avversari era tipo un ladro in casa, invita tutti a sostenere la Ducati che ai tempi era estratto di kriptonite purissimo. È entrato nella dimensione in cui guarda sé e il passato da un’altra prospettiva. Anzi, proprio da fuori. Le difficoltà di queste ultime stagioni difficilissime lo hanno ammansito, caricato di buonsenso e oggettività, come nuove testimonianze della sua grandezza. Si è reso gigantesco pure da perdente conclamato, caricando su di sé responsabilità inedite, persino troppo e anche quando non serviva. Quello che fa uno grande per davvero quando capisce che l’ora di smettere è arrivata. Ritardatario cronico, ma perfezionista viscerale, Rossi ha rimandato l’addio fino a esaurimento del gusto, ma con la prospettiva di diventare padre all’indomani. Senza vuoti di mezzo. Valentino Rossi anche in questo. 
E se avessi cominciato dicendo “Caro Vale ti scrivo…”, mi sarei fermato alla seconda riga con un grazie enorme al pilota e all’amico che un’ottantina di volte mi ha fatto urlare felice al mondo Rossi c’è. Ecco, ci sarà sempre.

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