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Corpi in bilico

La letteratura di Yasmina Reza cattura il sesso incerto meglio della cronaca

Ginevra Leganza

Jacob è protagonista di “James Brown si metteva i bigodini”: adolescente convinto d’essere Céline Dion. I genitori lo fanno rinchiudere. Tragedia e commedia dei limiti infranti della carne

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Né maschi né femmine, piuttosto montagne russe. Potremmo riassumerle così, le questioni di genere, e quindi il rifiuto del binarismo – maschio e femmina – e poi il corpo, che è un luna park. Secondo uno studio del Public Religion Research Institute, il 28 per cento dei giovani statunitensi si sente oggi né maschio né femmina, al massimo queer. E si capisce che identità di genere e terzo sesso non sono più fatti marginali né folclore. Si capisce che sono ben altra cosa se esistono leggi, come il Gender Recognition Act scozzese, che legittimano l’autodeterminazione per chiunque; e se, dopo il diritto, arriva persino la letteratura… E sarà che il genderismo è il romanzo picaresco dei nostri tempi, ma il letterato non vi resiste. E dunque arriva persino Yasmina Reza, già spietata ritrattista dell’genderEuropa medioborghese, a cimentarsi oggi col sesso incerto. Allora partiamo da Jacob Hunter, l’adolescente al centro della sua nuova pièce, James Brown si metteva i bigodini (Adelphi), che i genitori confinano in manicomio perché convinto, il ragazzo, d’essere una ragazza. Di più, Jacob si convince d’essere Céline Dion, la popstar canadese: canta e danza con l’hula hoop e si ritrova recluso con Philippe, coetaneo bianco, sicurissimo – lui – d’essere nero. 

  
Di tanto in tanto gli fanno visita mamma e papà, i quali, sfiancati dal figlio (“nostro figlio è matto da legare”, dirà a un certo punto il padre), vengono bacchettati dalla psichiatra. Una che svolazza in monopattino e tiene lezioni sulle fiabe sessiste (per intenderci: scuola Paola Cortellesi). La pazzologa spiega perciò ai ragazzi che la bellezza principesca non esiste, la verità non esiste, che le sorellastre sono buone, Cenerentola è canaglia, e che tutto – ma proprio tutto – si può interpretare, persino le poche certezze che abbiamo. Persino bianco e nero, maschio e femmina, strega e principessa, adulto e bambino. Tutte cose che non son fatti, dice la dottoressa: sono solo interpretazioni. La psichiatra insegna perciò ai pazienti a sentirsi non quel che sono ma quel che sentono: non due ragazzi bianchi, ma l’uno femmina popstar, l’altro maschio nero. 

 
Ed ecco. Quando abbiamo letto Yasmina Reza – che l’opera aveva abbozzato nel 2013 in un capitolo di Felici i felici – prima che al teatro dell’assurdo abbiamo pensato all’assurdo, e cioè alla realtà e a quella cronaca che non più ci scompone. Fatta di ragazzi e ragazze interrotte – è il caso di dirlo – da triptorelina e ormoni cross-sex: dalla disforia alla psichiatria, chirurgia, mastectomia, con il corpo che è un luna park.

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Ci sono tornate in mente le bambine italiane che insieme ai genitori vanno a vivere a Valencia, dove “con più facilità si può essere quel che si vuole”, o i ragazzini che, avendo sempre aggeggiato coi vestiti di mamma, vengono assecondati dalla suddetta mamma, dal papà, persino dal nonno ottantenne nel percorso di transizione. Abbiamo pensato ancora all’inglese Oli London, “personalità di Internet – cit. Wikipedia – sottopostasi a chirurgia multietnica” per somigliare al cantante coreano Jimin, salvo tornare poi sui suoi passi, convertirsi all’anti gender e al cattolicesimo. 

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E abbiamo rimuginato infine le cronache non meno che le nostre conoscenze, ché se negli anni Zero, in prima elementare, ci stranivano gli sparuti figli dei divorziati, quel che stranisce oggi – sempre meno – è la presenza di ragazzi e ragazze che non sanno chi sono. Teenager per cui il nome, il corpo, l’identità, sono appunto montagne russe: giochi, sì, ma pericolosi. Quindicenni che tuttavia non sono strane creature né mosche bianche, ma vicini di banco e di casa. Come ci fu chiaro quando, a una festicciola, i fratelli più piccoli ci presentarono Alex, nata femmina, scopertasi maschio, riscopertasi ancora femmina. Alex che alla nostra domanda: “Posso rivolgermi a te come una ragazza?”, ci spiazzò: “E’ indifferente”. 


Ci spiazzò e suscitò un riso amaro, come la Reza. Perché anche lei, come Jacob Hunter, aveva giocato a lungo col corpo, e anche lei, come lui, in quest’ottovolante dell’identità era stata supportata da mamma e papà per poi perdersi e girare a vuoto. E’ insomma una storia, quella della scrittrice parigina – già perfida groupie di Nicolas Sarkozy – in cui c’è tutto. Una storia che lega i grandi temi della matassa e della cronaca: il linguaggio e la morale; il corpo prêt-à-porter; e infine gli adulti complici. 


Tre grandi temi. Tutti di storie vere. E tutti in una storia inventata che pure, meglio dei gender studies, coglie il tempo sul fatto. Il nostro tempo fantastico e picaresco. 

 

Il linguaggio e la morale ormonale 


A proposito di linguaggio, si capisce che il centro, quando si parla di genere, è “indifferente”. Un po’ come le declinazioni dei nomi secondo la nostra amica. Col dibattito che ruota attorno a un asterisco, perché tutto, in questi casi, si basa non su cosa siamo ma su cosa sentiamo. E col corpo che non è più un ponte fra l’io e il mondo, ma un luna park, ovvero un saliscendi nel rapporto dell’io con l’io. Ed è quindi la vacca sacra dell’ego, quell’asterisco. E’ cioè l’indifferenza nei confronti del mondo che ripiega sui valori soggettivi (linguistici e ormonali: “Sono quello che mi sento”), in una ritorsione che prelude all’implosione. Giacché nessuna epoca di progresso, scriveva Goethe – e noi crediamo a lui, mica alla pazzologa – ha indole soggettiva (né ormonale). 

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L’io, l’indifferenza nei confronti del mondo che ripiega sui valori soggettivi: “Sono quello che mi sento”. Una ritorsione che prelude all’implosione

  
Il sociologo Frank Furedi, sui limiti linguistici e corporei, ci ha scritto un libro, I confini contano (Meltemi, 2021), dove per “confini” intendeva oltre che le frontiere politiche e burocratiche anche quelle fisiche e biologiche. Che sono giocoforza frontiere linguistiche: maschio e femmina. M e F sono perciò urgenze dialettiche: costruzioni logiche e nondimeno reali. Nomi che diamo alle cose in conseguenza delle cose; violenze necessarie e binarie, d’accordo, che però pongono un limite all’io contro quella che Furedi chiama “ideologia dell’illimitatezza” o “forma morbida di totalitarismo” (la solita vacca sacra)… 


Uomo e donna come confini di carne, quindi, e di parola, che attengono alla ragione. Limiti che sventano, secondo Furedi, la tirannia soggettiva che nessuna cultura può sostenere. Non foss’altro perché il soggetto è un abisso. Un maremoto di sesso e voluttà che non bisogna prendere troppo sul serio, di cui non bisognerebbe fare bandiera politica, sociale e men che meno grammaticale. Per non finire naufraghi noi, nel nostro abisso, non sapere più chi siamo ma solo come ci sentiamo, per non costringere il prossimo a star dietro ai nostri umori che diventano morale (più che provvisoria, morale ormonale); e per non costringere insomma il mondo – se s’incardina non sui genitali oggettivi ma sui generi soggettivi – a poggiarsi su basi fragili: fast gender, transgender e poi detransitioner. Giacché sesso e identità, come un’onda, può seguirli la risacca. E cioè il ritorno al sesso natale: detransitioner, appunto (è il caso di Alex e di tanti ragazzi farmacologizzati, nei pionieri Paesi Bassi e in Inghilterra, e poi tornati indietro da più grandi – ne hanno scritto il New York Times e, anche qui, Marina Terragni). 


Scandali contemporanei? No. L’uomo faustiano esiste da sempre. Tragedie? Forse. 


Intanto, però, una postilla tragicomica: in questi giorni, a Ceuta, città autonoma della Spagna su suolo marocchino, e quindi città dove vige la Ley trans, si parla molto di Roberto Perdigones, 35 anni. Perdigones, caporale dell’esercito nato maschio e rimasto maschio, dice di sé d’essere femmina e lesbica. E quindi, a conti fatti, è sempre maschio eterosessuale. Lo fa – si presume – per aggirare il divieto d’incontrare il figlio, esclusivamente affidato alla madre nonché sua ex moglie. Perdigones, smettendo d’essere padre e ricominciando la carriera genitoriale in veste di “madre non gestante”, avrebbe forse la possibilità di rivedere il ragazzo. Ed ecco, in estrema sintesi: il corpo come luna park e la lingua come corpo contundente. Faccio il maschio e mi dico femmina. Tragico e spassoso. Servirebbe una Reza anche a Ceuta. 

 

Il corpo: da tempio dello spirito a luna park 


Ma a proposito di “confini”, oltre la fluidità linguistica c’è poi la materia solida. Oltre il “genere”, il corpo. O, più precisamente, il sesso. Che marca la differenza. 
Sulla sacralità e inviolabilità del corpo – dalle lettere paoline a Walt Whitman – l’idea è sempre quella di “tempio dello spirito”. Di tempio e ponte fra l’io e il mondo. E poiché il corpo, nella sua essenza più strutturale – ossia nell’organo che lo tiene duro e vivo – diventa oggi fluido, vien da pensare che il tempio scricchioli. Che il ponte ceda a furia di tirarsi su come un levatoio per rivolgersi all’interno (“sono fuori come sento dentro”). Vien da pensare insomma che – vacillando nei suoi contrafforti: maschio e femmina – vacilli pure nella sua idea di sacralità. 


Ma anche l’androgino è sacro, direte voi. Vero. Ma il tema qui è un altro, e non c’entra con Platone o coi riti di iniziazione. C’entra piuttosto col corpo prêt-à-porter, con una certa ideologia di sesso da asporto fondato sull’io: sull’io penso e sull’io mi sento. E cioè col corpo da ricreare senza troppo sforzo, senza riti iniziatici ma piuttosto per iniezioni (di farmaci bloccanti, s’intende). E ancora, pudende a parte, c’entra pure con la faccia che viene plasmata a immagine filmica. 

  

Il corpo prêt-à-porter, non solo nelle transizioni: il looksmaxxing è il fenomeno che riguarda i maschi incapricciati d’una faccia più bella 

   
A parte Oli London – l’inglese che ricorre alla chirurgia per diventare maschio, addirittura coreano – ci sono storie meno eclatanti. Alcune non arrivano alla transizione di genere (o razziale) ma spiegano comunque il corpo-luna park. Il Guardian, per dire, ha recentemente raccontato il looksmaxxing, fenomeno anch’esso internettiano – come Oli London – che riguarda i maschi incapricciati d’una faccia più bella (o più belloccia). E dunque una faccia più femminile. Gli influencer looksmaxxing crescono di giorno in giorno promuovendo il mewing (il miagolio: un miliardo di contenuti su TikTok). Ovvero una particolare tecnica, scrive Vogue, “che prevede di unire le labbra, socchiudere e allineare le arcate dentali e spingere la lingua verso il palato”. Come in un flipper o in un gioco di allineamento che spinga le stecche verso le buche. Il tutto per evidenziare i muscoli della mandibola e della mascella, gingillandosi con le distanze interpupillari e le inclinazioni cantali, come se le pupille fossero appunto biglie (se volete un correlativo estetico, lo trovate nel Christian Bale di “American Psycho” o nel più recente Cillian Murphy di “Oppenheimer”). 


E dunque la faccia a immagine filmica e la carne non più tempio, ponte, ma ottovolante. O, se preferite, la carne come bomba di estrogeni e testosterone che rottama facce e convinzioni in disuso. Come quella per cui il corpo non va toccato perché banalmente, il corpo, non ci appartiene (sempre Paolo, I Corinzi, 6, 18-20). Mentre qui, a ben vedere, è tutta una questione di diritti reali, di possesso e proprietà, e cioè di corpo che adesso è mio, solo mio, anche se l’io – come per il poeta Rimbaud – è un altro. Anche se l’io cambia e da solo – senza il suo legame col mondo – non fonda niente. Fatta eccezione per una morale ormonale che fa i salti, a volte di gioia, a volte di dolore, un po’ come un adolescente. O come il trapezista al circo. 

 

L’infantilizzazione del mondo 

A proposito di circhi, di luna park, ma soprattutto di templi, sveliamo adesso gli altarini. E confessiamo che dietro questo pezzo c’è un altro pezzo, inteso però come canzoncina. E’ Talponia di Marco Jacopo Bianchi in arte Cosmo, e fa così: “Vedrai, il corpo è un parco giochi / …  / Sei tu che sceglierai”. Talponia, che nella realtà è il nome dell’unità residenziale Ovest di Ivrea, nella fantasia del cantautore rappresenta una città utopica, trans, forse persino punk. Solar-punk. Cosmo si rivolge alle donne, ma più precisamente si rivolge alla figlia, augurandole di “esplorare il suo corpo”. E qui veniamo al punto, anzi ci torniamo. Da Cosmo a Yasmina Reza. 

  

Nella pièce di Reza, i genitori di Jacob, non sapendo più come rivolgersi al figlio, tornano a chiamarlo come quand’era piccolo: “cucciolotto”

   
Qui torniamo infatti a padri madri e prole. Ai genitori di Jacob Hunter che non sapendo più come rivolgersi al figlio, se come a un lui o una lei, pur stimandolo sciroccato, lo chiamano come quand’era piccolo: “cucciolotto”. Diventando cucciolotti anche loro. Così, mentre Jacob, lucido nella sua follia, si cala gli occhialoni e fa il grande, anzi la grande, mentre insomma Jacob fa Céline Dion, i genitori non sanno più che fare. E danno retta alla psichiatria. Che se in passato, davanti a situazioni del genere produceva cose serie, e cioè saggi freudiani (pensiamo alle “Memorie di un malato di nervi” di Schreber, disforico studiato da Freud), oggi la stessa psichiatria – stando ovviamente a Reza – asseconda i malati di nervi in stile Cortellesi. 


E siamo così dalle parti dell’infantilizzazione dell’umanità, come la chiamava Mario Perniola, coi genitori capaci d’ogni bambocciata e i figlioli assurti a maître à penser. Dalla letteratura alla vita, siamo dalle parti di Witold Gombrowicz e del suo romanzo sui trentenni-adolescenti in un mondo di istituzioni che ne boicottano la crescita. Esattamente come accade in alcuni atenei statunitensi, dove – oltre ai bagni intersex – gli studenti ansiosi vengono muniti di peluche (i “cucciolotti”) in apposite stanze per rilassarsi. O magari di cani veri, da terapia, come accade alla facoltà di medicina a Harvard o di legge a Yale. Per non dire di Canberra, dove chi ha il mal d’esame può scoppiettare le bolle di imballaggi pluriball prima dell’interrogazione. Dal surreale al reale, il mondo s’è fanciullizzato. Ma se sull’ottovolante dovevamo essere più felici, pare di no. Tra cucciolotti e hula hoop, siamo al tornante del voltastomaco.

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