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La riflessione sul conflitto ucraino

Il caos del dibattito sulla guerra, o l'incapacità di fare i conti con il tragico

Guido Vitiello

Resa o resistenza. Il guaio di chi rifiuta il “pensiero binario” e la paura di fare i conti con l'inevitabile tragedia dei dilemmi senza sbocco

C’è una scena di Grandi speranze di Charles Dickens in cui Pip, arrivato a Londra sulle ali della sua nuova fortuna, assiste a una tragicomica messinscena dell’Amleto di un suo vecchio concittadino, il signor Wopsle. Quando il principe arriva al suo celebre monologo, essere o non essere, e si domanda “se sia più nobile all’animo soffrire”, il pubblico in vena di risate lo prende come un sondaggio: “Chi gridò ‘sì’ e chi ‘no’, e qualcuno incline alle due opinioni, ma incerto, disse: ‘Prova a fare a testa e croce’, e ne venne fuori un vero e proprio dibattito”. Ci ripensavo, giorni fa, leggendo Giuliano Ferrara sul nostro paese incapace di riconoscere il tragico e Mattia Feltri sugli italiani che vivono nel melodramma, gesticolando e gorgheggiando in attesa che un deus ex machina cali sulla scena e metta fine alla guerra. Tragedia e melodramma, del resto, si escludono: “Quanto è tragico, si basa su un contrasto inconciliabile. Appena una conciliazione si attua, o diventa possibile, il tragico dilegua”, disse Goethe – che al tragico si considerava estraneo prima di tutto per indole – al cancelliere von Müller. Il Faust di Goethe si annunciava sì come una tragedia, ma qualcuno ha detto che l’ascesa al cielo del suo eroe ne fa tutt’al più un melodramma eccelso. Non c’è da stupirsi, quindi, che quel lieto fine suonasse stonato e quasi oltraggioso a chi aveva testimoniato un male per il quale era difficile immaginare una redenzione, quello della Seconda guerra mondiale e della Shoah. “Ci siamo trovati faccia a faccia con esperienze in cui non ci sentivamo più portati a leggere Goethe, ma prendevamo in mano Shakespeare o la Bibbia o Eschilo, sempre che fosse possibile leggere”, raccontò Karl Jaspers in una memorabile conferenza del 1948, “Il nostro futuro e Goethe”. 


Se torniamo al qui e all’oggi e osserviamo, alla luce di tutto questo, il caos desolante del nostro dibattito sulla guerra, ci accorgiamo facilmente che la polemica contro il pensiero binario, dietro l’apparenza di un rifiuto dello schematismo e della semplificazione, nasconde prima di tutto un’incapacità di fare i conti con la tragedia, con la tagliola dei dilemmi senza sbocco. Pensiero binario è infatti uno dei possibili nomi del tragico. In una poesia scritta alla fine degli anni Sessanta, Dialogo (in origine avrebbe dovuto intitolarsi “Filosofia, ninfa gentile”), Eugenio Montale metteva a confronto un dialettico e un tragico, parteggiando apertamente per il secondo: “Il sistema ternario / secerne il male e lo espelle, / mentre il binario se lo porta dietro”. Il sistema ternario era appunto la dialettica hegeliana divenuta provvidenzialismo marxista, il rondò della storia universale in cui ogni orrore può prender parte purché sappia attendere il successivo giro di danza, o la sintesi a venire. Al contrario, il sistema binario si trascinava in spalla il fardello del male radicale. Ebbene, la nebbia artefatta del nostro dibattito, in cui certe ninfe non proprio gentili della filosofia, della sociologia o del giornalismo proclamano di rifiutare il “pensiero binario” che vede la sola alternativa tra la guerra e la resa ucraina, tradisce uno sforzo affannoso di occultare il tragico, la scelta necessitata tra due mali, tanto più dolorosa quando si è incalzati sulla scena da un personaggio infido e muto, il tempo che scorre. 


Il lieto fine di un sistema ternario non è più a portata di mano, in questa epoca di malinconia storica o post-storica; e allora, come carpe irrequiete, si gira ossessivamente intorno ai due corni del dilemma – l’aiuto alla resistenza, la condanna alla resa e al massacro – immaginando vie d’uscita assai meno credibili di Faust che ascende tra le schiere angeliche in una pioggia di petali di rosa: il superamento degli stati nazionali, l’internazionalismo dei bei tempi andati, il disarmo, la comprensione francescana delle ragioni dell’altro, il sogno di una diplomazia goetheanamente olimpica quando si ha a che fare con una ganga di criminali di guerra che mostra di considerare carta straccia qualunque accordo e parola al vento ogni promessa. E non è più neppure melodramma.  Semmai – lo osservava Marc Fumaroli, spettatore allibito dei nostri talk-show – “è una corruzione dell’opera buffa, con le sue scene concitate e chiassose, le sue melodie pompose, i suoi interminabili recitativi”. Resistenza o resa? Facciamo a testa e croce?

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