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Per il Papa, con il Male non si parla. Ma con i malvagi si può (e si deve)

Giacomo Papi

Qual è il dialogo possibile in tempo di guerra? Forse Francesco parlava del Diavolo non del lupo, delle tentazioni non dei peccati. Il Diavolo sono i nostri istinti più facili, che sono potenti ma ridicoli, e ci fanno vietare la Scala a Gergiev, o il corso su Dostoevskij a Paolo Nori

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Tra le tante frasi pronunciate da Papa Francesco durante l’intervista a Fabio Fazio del 6 febbraio scorso ce ne sono due a cui continuo a ripensare, soprattutto da quando la Russia ha invaso l’Ucraina (e in Italia sono cominciate censure e richieste di abiura). La prima è la definizione del Papa della guerra come “un controsenso della Creazione”, cioè come qualcosa che contraddice logicamente il mondo creato da Dio (o la natura per gli atei) ma anche la realtà costruita dagli uomini. La vita e il lavoro umani per il Papa proseguono l’opera di Dio: “Lavorare la terra, curare i figli, portare avanti una famiglia, far crescere la società: questo è costruire”, ha detto. “Fare la guerra è distruggere. E’ una meccanica di distruzione”. La distruzione non è soltanto materiale, è anche morale perché tra le vittime della guerra ci sono anche gli ideali che ci tengono insieme, quelli che fanno “crescere la società”, a cominciare dall’idea stessa di umanità. Sulla terra la guerra – parola che durante l’intervista il papa ha pronunciato 12 volte – scava fosse e confini tra nazioni e persone, perché per sua natura separa, divarica, irrigidisce i contrasti. (E “sotto ogni tipo di rigidità c’è putredine, sempre”, ha detto Francesco riferendosi al fanatismo religioso, ideologico e nazionalistico). La guerra è il male, il “controsenso della creazione”, il gorgo che attrae quello che esiste per trascinarlo nel nulla.

La seconda frase mi è parsa più problematica, addirittura scandalosa: “Con il Male non si parla. Dialogare con il Male è pericoloso”, ha detto Francesco. “Gesù non ha mai dialogato con il Diavolo, mai, mai! E quando ha dovuto rispondere, nel deserto, gli ha risposto con la risposta di Dio”. Ripenso a queste parole ogni volta che vedo la faccia gonfia di Putin, i neonati strappati alle incubatrici e i blindati per le strade di Kyiv, ma anche davanti allo zelo con cui in Occidente si pretende dai russi il ripudio di Putin o si censura Dostoevskij (peraltro citato dal Papa: “Perché soffrono i bambini? Perché soffrono i bambini? Io non trovo spiegazioni a questo. (…) Io trovo una sola strada: soffrire con loro. E per me in questo è stato un gran maestro Dostoevskij”). Com’è possibile non parlare con il male? E’ davvero saggio non farlo? Il silenzio non lascerebbe campo libero al solo linguaggio della violenza?

Che parlare con il male sia pericoloso lo ha scritto anche Friedrich Nietzsche in “Al di là del Bene e del Male”, in una frase che ormai si trova anche nei cioccolatini: “Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”. Il contatto con il male inquina, è evidente, ma questo inquinamento non dimostra che uno scambio è sempre possibile? Lo scandalo del cristianesimo non è accettare la contaminazione, abbracciare i lebbrosi e le adultere? Proprio per questo Francesco ha fatto un elogio del tatto: “Penso ai medici, agli infermieri e infermiere che hanno dato la vita in questa pandemia: hanno toccato il male e hanno scelto di rimanere lì con gli ammalati. Questo è grande, ma se tu non tocchi…”. La grandezza del cristianesimo non è San Francesco che parla con il lupo? E la fiducia nella parola e la possibilità del dialogo non sono alla base soltanto del cristianesimo, ma dell’intera cultura occidentale, dall’idea di Socrate secondo cui la parola e il pensiero sono gli strumenti con cui scegliere il bene, alla scommessa della democrazia nel fatto che quando le parole e i pensieri sono liberi, vinceranno le parole e i pensieri più giusti. 

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Forse Francesco voleva dire che il male non si deve ascoltare, che Eva non avrebbe dovuto ascoltare il serpente e che qualche giorno fa, alla Conferenza sul disarmo di Ginevra i delegati dell’Onu hanno fatto bene ad andarsene quando ha preso la parola Sergei Lavrov, il ministro degli Esteri di Putin. O forse Francesco parlava del male non dei malvagi, del Diavolo non del lupo, delle tentazioni non dei peccati (e infatti per lui “tutti noi abbiamo il diritto di essere perdonati se chiediamo perdono”). Parlava di noi, non degli altri. Descriveva la tentazione di cedere alla nostra parte peggiore perché dialogare con il diavolo significa essenzialmente parlare da soli, come dimostra la solitudine di Gesù nel deserto. Parlava anche della facilità con cui si cede alla logica dell’amico/nemico e si può pretendere di difendere la democrazia adottando le logiche arbitrarie delle dittature. Il diavolo sono i nostri istinti più facili, che sono potenti ma ridicoli, fanno agire d’imperio come vietare la Scala a Valerij Gergiev, il direttore d’orchestra russo amico di Putin e pensare, anche solo per un attimo, che per battere Putin sia sensato impedire a Paolo Nori di insegnare la letteratura russa all’università di Milano.

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