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Le macchine della repubblica/1

Alla guida della rinascita. Breve storia d’Italia dallo specchietto delle sue auto

Marco Tullio Giordana

A guerra finita da pochi anni, è la Fiat a suonare la carica: con la 1100 per il nuovo ceto medio e la 600 per gli altri. La 2800 del re e dei presidenti, la leggendaria Giulietta 

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Proprio così, macchine invece che automobili, perché si vuole qui tracciare non tanto una mappa del trasporto su gomma nella Repubblica, quanto il forte significato simbolico che l’automobile ha avuto nel nostro paese negli anni della ricostruzione e, a seguire, del boom economico, della recessione, della crisi, delle prime frane istituzionali. Un periodo che dalla fine della guerra all’inizio degli anni Ottanta, i 35 e più anni che sconvolsero l’Italia e le nostre vite. “Macchine desideranti”, si sarebbe detto negli anni Settanta delle automobili, oggetti del desiderio e desideri esse stesse, icone, fabbriche di consenso a rate (il gergo odierno le insignirebbe di “orgoglio identitario”) e finalmente oggetti di spregio e odio sociale, contumelia e condanna al rogo come cause di tutti i mali.

Cominciamo dal parco macchine che l’Italia si ritrova a guerra finita. Quello privato è inesistente, quasi tutto requisito dai vari eserciti in ballo, l’italiano ovviamente per primo, poi il tedesco, infine l’angloamericano. Si salvano pochi mezzi nascosti nei fienili o murati nelle case, qualcuno addirittura sotterrato e fatto risorgere come Lazzaro. Auto per solito di pregio, una fortuna averle strappate al combattimento. Tutto il resto è cenere, dappertutto macerie e rottami, residuati che sarebbe troppo costoso rimpatriare e vengono perciò radunati negli sterminati parcheggi Arar (Azienda rilievo alienazione residuati) per mandarli all’asta a poco prezzo assicurando la prima stentata mobilità (rete ferroviaria distrutta al 60 per cento, materiale rotabile al 70 per cento) e l’utilizzo agricolo, dato che l’industria nazionale impiegherà tempo a riconvertirsi agli usi civili e toccherà aspettare il piano Marshall (1947-51) per avere le dismesse catene di montaggio oltreoceaniche, colà obsolete ma qui buone per le sottodimensionate macchinette italiane.

 

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La Fiat punta su un graduale e ottimistico automobilismo di massa e dalle prime borghesi 1400 e 1900 si specializza nella modesta 1100, dedicata al nascente ceto medio (non ancora “riflessivo” ma già impiegato in aziende private e soprattutto pubbliche, dunque convenientemente garantito), quindi nelle leggendarie 600 e 500 che motorizzano anche il proletariato, emancipandolo dalle motoleggere e dalle Vespe e Lambrette che tanto fastidio davano a Orson Welles quando abitava a Roma. Altre due ditte vanta l’Italia: Lancia e Alfa Romeo, specializzate in manufatti super lussuosi e sportivi, oggetti unici destinati soprattutto all’esportazione, viste le cifre inarrivabili che costano, oppure all’Olimpo fascista per la gioia del gerarca di turno. Soprattutto Lancia – che gode negli anni Trenta dello stesso prestigio di cui godono le Rolls-Royce inglesi, le Hispano-Suiza iberiche, le Bugatti francesi o le Packard americane (copiate dai russi per diventare le Zis degli apparatchiki staliniani) – viene precettata a competere con le possenti Große Mercedes-Benz, Horch o Maybach naziste. Tanto che Mussolini potrà scorrazzare visibilmente soddisfatto il suo Führer nel 1938 a Roma a bordo di una scintillante Astura Tipo 91 8 cilindri carrozzata dagli Stabilimenti Farina (guidati dal torinese Giovanni, fratello maggiore di Giovanni Battista detto Pinin).

 

Altro modello di rappresentanza è la Fiat 2800\ torpedo, fornita alla Real Casa da Pinin Farina (che allora si scriveva staccato) in numero di 12 esemplari, tutti con nomi di cavalli delle predilette scuderie di Villa Ada oggi fatiscenti. Quella con numero di telaio 000276, targata Roma 73185, va in dotazione al re il 14 dicembre del 1939 e si chiama Alcinoo, come uno dei cavalli del sovrano. Non saprei dire se sia questa l’auto dell’ingloriosa fuga verso Pescara o una gemella; certo è che l’auto rimane al Quirinale anche quando viene proclamata la Repubblica e servirà con onore per le grandi occasioni i presidenti De Nicola, Einaudi e Gronchi, fino al 1961. 
 

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Naturalmente le 2800 furono molte di più, anche se le versioni meno preziose furono impiegate quasi esclusivamente nella Pubblica amministrazione, non riscuotendo troppa simpatia nei privati anche per via della loro identificazione col regime appena tracollato e che tutti, sedicenti incolpevoli, vogliono dimenticare.
Il presidente Einaudi non amava la 2800 ex reale, ora presidenziale, e preferiva utilizzare per le cerimonie ufficiali una versione meno appariscente: sempre una Fiat 2800, però vestita da un altro carrozziere, il sobrio torinese Vittorio Viotti. Ministeri, amministrazione e nomenklatura varia, che non potevano aspirare alla troppo costosa Lancia Aurelia, dovettero accontentarsi di mezzi più modesti: le panciute Fiat 1400 e 1900 d’impronta americana (quest’ultima fornì il motore anche alle Campagnole militari) e, soprattutto, le discrete 1100/103. Le raffinate Lancia Appia – che replicavano in piccolo le squisitezze dell’Aurelia – erano invece preferite dai privati, da quel nuovo strato superiore abbiente che si rimboccava le maniche e aspirava a un lusso discreto, non ancora guasto da ostentazione e volgarità.

 

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Meritano un discorso a parte le Alfa Romeo. L’appeal di questa marca e il blasone sportivo l’avevano issata tra le due guerre ai vertici della produzione industriale, acquistate da gentlemen drivers e ricchi piloti dilettanti. Le auto erano sì lussuose (e costosissime) ma vocate a spartana asciuttezza, un’essenzialità ben interpretata dai carrozzieri milanesi Zagato, Castagna e Touring che ne furono i supremi Maestri cantori. Riconvertita nello sforzo bellico a fabbricare aerei e mezzi pesanti, fu quasi del tutto rasa al suolo dai bombardamenti del 1943. Complicato fu il ritorno alla produzione automobilistica dato che la guerra aveva azzerato, insieme agli edifici, anche la clientela.

 

In più era di proprietà dell’Iri e le pressioni per chiuderla furono molte e pesanti. Una direzione, competente e illuminata – come oggi sarebbe difficile immaginare – decise di costruire le nuove Alfa nella cilindrata 1300 che non avrebbe rivaleggiato con Fiat e Lancia, inventandosi un segmento di mercato – berlina 4 porte compatta, brillante, veloce, tenuta di strada ed efficienza del sistema frenante eccezionali – che prima non esisteva. Era nata la Giulietta, auto fortunatissima e declinata in più versioni leggendarie: berlina, coupé, spider (su sollecitazione dell’importatore americano Max Hoffmann) che rinverdirono i fasti sportivi e rilanciarono il marchio come nemmeno nelle più rosee previsioni. Mi sia concesso di citare i nomi di quel gruppo così lungimirante e capace: Giuseppe Luraghi e Francesco Quaroni al timone, alla progettazione il geniale asceta Orazio Satta, al tecnigrafo il sulfureo Giuseppe Busso, nato disegnatore senza nobiltà di laurea, figura frizzante e anticonformista, memorialista pieno di aneddoti meravigliosi che mi sono sempre rammaricato di non aver fatto in tempo a intervistare fissandolo per la memoria a venire. 
 

 

Alfa Romeo, Fiat, Lancia, Autobianchi, Innocenti, antichi marchi come Isotta Fraschini (che aveva costruito le auto più belle del mondo e produceva ora motori marini) furono alla base di una rivoluzione industriale permessa dal basso costo dall’energia grazie alla nazionalizzazione dei bacini idroelettrici e all’audace politica estera di Moro e Mattei. Furono loro che, trattando prezzi favorevoli con i paesi produttori di petrolio scossi dai movimenti nazionalisti (Egitto, Iran, Nigeria) diedero al paese il colpo d’ala che rese possibile il boom ridisegnando allo stesso tempo la geopolitica mediterranea e mediorientale. Ne veniva ridimensionato il ruolo delle cosiddette Sette sorelle, locuzione inventata proprio da Mattei. (A proposito, chi erano? Eccole: Standard Oil of New Jersey – poi Exxon –, Royal Dutch Shell, Anglo-Persian Oil Company – poi British Petroleum –, Mobil, Gulf, Chevron e Texaco). E non erano solo le compagnie a perdere profitti e influenza, ma anche le nazioni che avevano spadroneggiato nell’area a partire da Inghilterra e Francia, che presto avrebbero perduto anche il controllo del Canale di Suez. L’Italia guadagnava terreno dal punto di vista industriale e acquisiva un ruolo politico sempre più rilevante entrando in collisione con gli interessi di mezzo mondo. È un caso che i suoi principali artefici abbiano fatto entrambi una brutta fine? Come ci porta lontano parlare di macchine… va’, va’ povero untorello, occupati del tuo! 
 

 

Gli anni Cinquanta si concludono con il nostro paese in piena offensiva. Abbiamo qui parlato solo di automobili e nemmeno di tutte! Nulla abbiamo detto delle Case che hanno tenuta in alto il tricolore e la bandiera a scacchi: le solite Alfa Romeo e Lancia (che però stanno entrambe per abbandonare le corse) e le new entry che in pochi anni diventeranno mitologia e orgasmo per il mondo intero: Ferrari e Maserati, miscuglio di artigianato e lussuria, sogno proibito concesso solo a campioni, re e regine, divi del cinema e della canzone. Tutta la nostra industria lavora a ritmo incessante, che si fabbrichino lavatrici o frigoriferi, ferri da stiro, tostapane. Merito della capacità di innovare delle aziende e di una manodopera altamente qualificata (gli italiani sono ancora degli sgobboni), di una relativa pace sociale (sia pure fra schedature e sindacati “gialli”) e, soprattutto, di un serbatoio di manodopera proveniente dal Sud, molto meno qualificata ma altrettanto necessaria, soprattutto nell’edilizia che deve costruire i falansteri dove alloggiare la colossale migrazione. Tutti questi beni bisogna pure che qualcuno li compri ed ecco che finalmente il salario aumenta e permette quei consumi che cambieranno la faccia del nostro paese. 
 

Le donne diventano improvvisamente soggetti importanti: sono loro a pretendere le facilities domestiche e, non disinteressatamente, si comincia a occuparsi di loro non più soltanto come fattrici, madonne o puttane, ma come segmenti merceologici da colonizzare. Le metropoli si gonfiano, si spopolano le campagne, lentamente si trasforma un paesaggio rimasto uguale per secoli. Ci sono ancora le lucciole in giro ma tutto sta cambiando, anche se per il momento ogni cosa sembra andare per il verso giusto. Resiste, anzi imperversa, il mito dell’automobile, tutti vogliono comprarne una. Non si vedono nubi all’orizzonte, la pace è stabilizzata, le guerre in Europa sono solo quelle raggelate di spie e dispetti diplomatici; non è che non esistano più, siamo solo riusciti a trasferirle altrove. Muore Papa Pacelli, ieratico e tenebroso, sorge l’astro di Giovanni XXIII, tutti sono innamorati del giovane superdotato presidente americano. Perfino i russi riescono a sfoggiare un simpaticone, Nikita Sergeevich Chrushëv, italianamente translitterato in Krusciov, e i due si studiano in amichevole cagnesco. Siamo alla vigilia dell’età dell’oro?
Se ne riparla alla prossima puntata. (Continua)
 

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