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Twitter e il ddl Zan. I gentili paladini della lotta all'odio, contro "gli altri", diventano feroci odiatori

Giancarlo Loquenzi

La mia tweet-storm sulla “f....o” word e la libertà che manca alle bandierine. Le lotte radicali servivano per cambiare la società, non la lingua

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Al direttore - Così ho avuto anch’io la mia tweet-storm. Per carità, non me ne lamento: se si sta attivamente sui social si mette in conto di incappare in incidenti del genere e se ne pagano le conseguenze. Lungi da me dunque considerami vittima di qualcosa che io non abbia scelto consapevolmente (vorrei anche tranquillizzare gli amici che ancora mi chiamano preoccupati per sapere se sto bene).

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Al direttore - Così ho avuto anch’io la mia tweet-storm. Per carità, non me ne lamento: se si sta attivamente sui social si mette in conto di incappare in incidenti del genere e se ne pagano le conseguenze. Lungi da me dunque considerami vittima di qualcosa che io non abbia scelto consapevolmente (vorrei anche tranquillizzare gli amici che ancora mi chiamano preoccupati per sapere se sto bene).

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Per i moltissimi che non sanno di cosa parlo, la mia colpa è stata rispondere su Twitter al titolo di un’intervista ad Alessandro Zan che recitava così: “A Mikonos ho incontrato un deputato leghista contrario al ddl Zan, baciava un uomo”. La mia risposta di getto è stata “Non ho capito, uno non può essere f….o e contrario al ddl Zan?”. L’unico accorgimento è stato scrivere frocio con i puntini per non rischiare di essere bannato dalla censura social, ma questo si è aggiunto alla mie molte colpe.

Non starò certo a ricostruire la lunga sequela di insulti, offese, distorsioni del mio pensiero che per giorni sono seguite a quel tweet: come dicevo non mi sento una vittima e neppure – all’opposto – voglio inalberare quell’atteggiamento sprezzante con cui in spesso si reagisce a queste tempeste (io so’ io e voi…).

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In realtà decidere come reagire a una tweet-storm è proprio il primo problema: uno può “scatafottersene” come suggerisce Guia Soncini, oppure rispondere punto per punto come a me verrebbe di fare. Nessuna delle due opzioni è interamente realizzabile. Se ne scrivo è perché ho scelto una terza via, forse la più pedante, quella di trarne una lezione. Anzi due.

 

La prima riguarda il motivo per cui le battaglie sui diritti faticano tanto ad affermarsi in Italia (ma in realtà un po’ ovunque nel mondo occidentale). C’è una bella vignetta che non ho ritrovato ma che descrivo a memoria: due paesi identici, arrampicati sulle sponde opposte di un fiume. Sul castello del primo paese è scritto: qui vive il nostro illuminato leader; sull’identico castello del secondo: qui domina il loro terribile tiranno. Sulla chiesa del primo si legge: qui si venera la nostra sacra religione; sull’altra chiesa: qui si celebrano immonde superstizioni. C’è anche una identica flotta di navi, da una parte si legge: il nostro glorioso esercito che ci difende dai nemici; dall’altra: i violenti aggressori del nostro popolo.

Ecco, la situazione è molto simile anche nell’ambito che ci concerne: ogni cosa è perfetta e benevola nei confini ben demarcati in cui abbiamo scelto di vivere. All’interno è bandito l’odio, incoraggiata la tolleranza e l’inclusione, i diritti di ciascuno sono sorvegliati e protetti, nessuno deve sentirsi anche solo minimamente offeso o a disagio per le regole comuni. Ma se stai fuori da quel confine ogni cosa è consentita, a cominciare dallo sputtanamento pubblico del deputato leghista (e non si dica che Zan non ha fatto il nome. Il meccanismo è quello classico di Dagospia: “Chi è quel deputato leghista che baciava un uomo a Mikonos?”). Di là dal confine i diritti non sono gli stessi, anzi la stessa esistenza di diritti oltre confine viene messa in dubbio. Contro gli “altri”, i gentili paladini della lotta contro l’odio, quelli con le bandierine arcobaleno nei profili, diventano feroci odiatori, insultano, aizzano le loro truppe organizzate, chiedono la tua testa. L’ho visto nel mio caso: sentirmi dire omofobo – per quanto paradossale – era il meno, anche gli altri insulti ci potevano stare – esplosioni di rabbia – ma chiocciolare l’azienda per cui lavoro è il segnale freddo di qualcuno che vuole vedere rotolare la tua testa perché non la pensi come lui. Tutto questo ancora una volta non per lamentarmi ma per osservare come in una situazione del genere è difficile conquistare diritti per tutti. “Sui diritti non si transige”, è stato per settimane il grido di guerra a sostegno del ddl Zan, mentre sui confini di quei diritti si alzavano fili spinati invalicabili e ognuno si teneva stretti i propri.

 

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L’altro aspetto che balzava agli occhi, mentre la tempesta si dispiegava, era il destino della materia del contendere. Da un lato i fan del ddl Zan furoreggiavano sui quattro puntini tra una effe e una o, con dotte disquisizioni linguistiche, sui registri comunicativi e sulle parole da bandire; dall’altro il ddl veleggiava placidamente verso le secche del Parlamento: tutto rinviato, tutto fermo, senza nessuna obiezione da parte di alcuno. E senza neppure un tweet a dolersene.

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Ci sono teorie socio-filosofiche che giustificano questo atteggiamento, anche se non credo ne fossero consapevoli le bandierine arcobaleno. C’è tutto un filone di studi di genere, specie sul versante femminista, che nega la possibilità di incidere veramente sulla realtà e sulla vita delle persone. Il sistema giuridico-legislativo sarebbe troppo ben presidiato dal potere maschile-patriarcale per poterlo anche solo scalfire; l’unica rivoluzione possibile è quella simbolica, tutta interna alla sfera del linguaggio: lì si possono imporre cambiamenti, segnare i confini delle comunità, esercitare dissonanze, deridere e provocare un potere altrimenti intoccabile.

E’ una visione opposta alla tradizione politica a cui sento di appartenere, quella radicale, sempre e tutta tesa a produrre cambiamenti nelle leggi, nel diritto positivo e magari, a forza di compromessi, anche nella vita delle persone. Le battaglie sul divorzio, sull’aborto, sulle droghe legali, sull’eutanasia erano e sono questo. Ma la storia delle lotte per i diritti sembra aver preso una strada diversa.

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Caro direttore, mi sono convinto a scriverti queste righe perché al Foglio ho lavorato a lungo e volevo onorare una tradizione rara di libertà e di leggerezza. Su questo giornale neppure tanti anni fa uno scrittore come Daniele Scalise poteva trasferire la sua rubrica dall’Espresso dove il titolo era “Gay” e chiamarla “Froci” per un senso di libertà e sprezzatura verso regole di linguaggio troppo asfissianti e insincere. E negli stessi anni il fondatore del giornale, Giuliano Ferrara, incazzandosi perché l’algoritmo di Facebook aveva censurato un suo editoriale dal titolo “Oggi froci”, scriveva poi sul Foglio: “L’algoritmo sa un sacco di cose ed è utile, ma non conosce l’ironia, quel nascondimento che disvela significati profondi delle cose: e se ‘gay’ è ortodosso secondo la cultura contemporanea e le sue regole, ‘frocio’ è l’emancipazione ironica da un vecchio insulto, la sua evoluzione libertaria in diritto orgoglioso di dirsi come si è”.

Che bisogno c’è di aver paura dell’algoritmo se lo stesso mestiere oggi lo fanno i froci come te?
 

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