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Verso la città del futuro

La forma dell’acqua, modello per Venezia

Francesco Gottardi

L'immigrazione sana come ‘deus ex machina’, dalla devastante alluvione alla città estesa sulla laguna. È l'ultima idea di Venezia, per ripartire dopo la pandemia e scampare dalla monocultura turistica: due architetti, un economista e un urbanista accendono il dibattito

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Chissà come l’avrebbe dipinta Monet. Un anno fa l’acqua granda, furia arcinota degli elementi lagunari. In primavera il lockdown, che ha restituito silenzi selvaggi a una realtà colma di chiasso. Ma la più paradossale malinconia è arrivata in autunno: il Mose finalmente funziona – salvo impasse burocratiche –, Venezia è in indulgente zona gialla, eppure le calli sono una processione di serrande abbassate. ‘Vendesi’, ‘Affittasi’. Rimanere chiusi conviene. Micidiale 2020: senza monocultura turistica, sgargiante maschera di benessere, la città d’acqua è nuda. Quasi imbarazzata. Le fornaci di Murano, ultimo residuo di artigianato locale, si raffreddano. Il monitor ‘conta veneziani’, special guest della farmacia di campo San Bortolo, registra l’emorragia demografica inarrestabile: oltre 120mila abitanti svaniti dal 1950. Cent’anni dopo Morte a Venezia, Venezia è morta veramente?

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Chissà come l’avrebbe dipinta Monet. Un anno fa l’acqua granda, furia arcinota degli elementi lagunari. In primavera il lockdown, che ha restituito silenzi selvaggi a una realtà colma di chiasso. Ma la più paradossale malinconia è arrivata in autunno: il Mose finalmente funziona – salvo impasse burocratiche –, Venezia è in indulgente zona gialla, eppure le calli sono una processione di serrande abbassate. ‘Vendesi’, ‘Affittasi’. Rimanere chiusi conviene. Micidiale 2020: senza monocultura turistica, sgargiante maschera di benessere, la città d’acqua è nuda. Quasi imbarazzata. Le fornaci di Murano, ultimo residuo di artigianato locale, si raffreddano. Il monitor ‘conta veneziani’, special guest della farmacia di campo San Bortolo, registra l’emorragia demografica inarrestabile: oltre 120mila abitanti svaniti dal 1950. Cent’anni dopo Morte a Venezia, Venezia è morta veramente?

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Le quattro Venezie

Questione storica. Ma così è posta male: un po’ come i suoi gatti, sempre più rari all’ombra dei pozzi, la città dei Dogi ha più vite. “E tuttavia fanno fatica a dialogare tra loro, nonostante i continui ‘contatti’ in vaporetto”. Dal caos fa ordine Cino Zucchi: architetto milanese con felice trascorso lagunare, cittadino del mondo soprattutto. “Vi è un incrocio quotidiano di almeno quattro Venezie. Anche quattro e mezzo”. Inquadrare il presente per orientare il futuro: “La prima è la città della pittoresca vecchietta con il carrello sui ponti. Poi c’è la più ampia popolazione mobile degli addetti ai servizi, complementare alla terza, la massa di turisti giornalieri. L’ultimo livello è formato dai visitatori d’élite, gli intellettuali”. Ecce Mann. “Tra questi vi è infine il viaggiatore per caso che si innamora della città, la sceglie come patria elettiva e se ne prende cura. La grande domanda è: può davvero salvare Venezia? Se non lui, nessun altro”.

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Alle ragioni demografiche – i 50 anni di età media di chi vive in centro storico sono record italiano, fonte Urbistat – si aggiunge la mentalità isolana: “Venezia potrebbe essere un crocevia di popoli ma oggi non è che un grande villaggio globale, senza vera interazione. Per questo occorre una nuova popolazione stanziale, né locale né vacanziera. Abbastanza internazionale da dialogare col mondo, incentivando il turismo sano e la fragile residenzialità. Che da sola, 50mila anime, non ce la può fare”. Un compromesso sociale da inseguire: “Fatto di immigrazione propositiva, come il mosaico di culture che il secolo scorso ha reso tale New York. E, con Peggy Guggenheim, la stessa Venezia”.

 

Tourism trap

La teoria di Zucchi è suggestiva, animata da citazioni pungenti (scrisse Debray: “C’è una borghesia europea internazionale che ha bisogno di luoghi della cultura per rappresentarsi. E quale luogo migliore di Venezia?”). Ma non per questo è utopia. Marco Percoco è economista urbano all’università Bocconi, ha collaborato con il porto di Venezia e attraverso la fondazione ‘Italia patria della bellezza’ lavora per la promozione di progetti culturali: senza aver nemmeno parlato con l’architetto, ne avalla il ragionamento. “Tutti sono attratti dai grandi introiti dell’escursionismo di giornata”, la spiegazione microeconomica. “Ma l’impatto sul territorio è devastante. Ed è un’attività a bassissimo valore aggiunto: giù i salari, su i prezzi delle case e dei beni di consumo. Facendo il rapporto si individua il reddito reale della città: paradossalmente ridotto in seguito al boom dei flussi turistici, perché il tasso di crescita dei prezzi è molto più veloce di tutto il resto. Questo è il problema di Venezia, che ne esce pure impoverita”.

  
L’emblema è la miriade di negozi di souvenir: “Andrebbero fortemente tassati”, dice il professore, “perché producono esternalità negative nei centri storici, inquinando la vista e l’offerta disponibile. Ma non mi aspetto l’intervento della politica. Né sarebbe necessario, il Recovery Fund casca a pennello: se è insostenibile abbassare i prezzi, si può invece aumentare la produttività della città. Diversificando in settori con più alto valore aggiunto: laureati, ricercatori. Tutti talenti che Venezia perde spopolandosi”. Ritorna il concetto di immigrazione colta: “Non in senso autoreferenziale”, sottolinea Percoco. “Ma attraverso un cluster di professionisti che ruoti attorno alle istituzioni. Si innescherebbe così un ciclo virtuoso, una spinta economica e creativa capace di orientare il consumo di qualità anche a beneficio dei residenti storici. Eppure, nonostante la Biennale e lo Iuav, a Venezia non esiste un polo del disegno industriale. Fatico a crederci”.

 

 

Innesti

 

 
È una storia lunga, che si trascina. Con la città d’acqua al tramonto, la parola ‘urbanistica’ è incredibilmente scomparsa dai piani di sviluppo. Da decenni, cani sciolti a parte: lo stesso Percoco ha contribuito al recupero dell’isola del Lazzaretto Nuovo, primo grande intervento di sanità pubblica in Italia e oggi museo. Mentre Andrea Curtoni, urbanista piacentino e veneziano acquisito, ha puntato sul Lido: “L’ex caserma, l’Ospedale al Mare. Erano abbandonati, ne abbiamo ricavato dei luoghi di associazione culturale. Ma ci vuole continuità d’uso (ora infatti dell'Ospedale si parla di farne un resort, ndr), una scala di valori che stabilizzi un ampio progetto di ripresa. E il coraggio di sperimentare prototipi di un nuovo piano urbanistico: Venezia come città-laboratorio. Questa sì che sarebbe un’immagine viva per il mondo”, insiste Curtoni. “Bastano pochi input per creare coinvolgimento internazionale. Gli spazi dismessi e le case sfitte da riutilizzare, come incubatori di nuova socialità, non mancano. Manca invece ogni visione politica, soffocata da una tradizione rigidamente regolatrice”.

 
Non a caso Venezia è anche la città dei progetti irrealizzati: “L’ospedale di Le Corbusier, il palazzo dei congressi di Louis Kahn”, di nuovo Zucchi, autore di uno degli ultimi radicali interventi invece riusciti. “Il complesso residenziale all’ex Junghans (1997-2003), un’area industriale dismessa della Giudecca”: ha permesso la rigenerazione urbana di un’intera zona della città. “Non ci sono però molte occasioni simili. Anche perché le nuove infrastrutture sono spesso orrende, senza mediazione con la bellezza secolare. Esistono alcuni intarsi intelligenti della contemporaneità: penso al Fondaco dei Tedeschi, a Punta della Dogana (shopping mall deluxe a due passi da Rialto, spazi espositivi all'imbocco del Canal Grande, ndr). Ma sono ‘innesti’ – così avevo chiamato il mio padiglione Italia alla Biennale 2014 – che richiedono una capacità di leggere e riformare il delicato ecosistema lagunare nel suo insieme”. Lo sa bene Alberto Cecchetto, architetto veneziano scuola Iuav: “Oggi intervenire qui è complicato, inseguendo le disposizioni in vigore si vanifica l'eccellenza universitaria e i risultati lasciano a desiderare. Ma la verità è che Venezia è tutta fuori norma. Un prodigio fondato su due valori: acqua e pedonalità. Basterebbe farsi guidare dalle onde, per disegnare anche la città del futuro”.

 

 

 Quarta dimensione

 

   
La marea che toglie e che dà, affascinante immagine di ripartenza. Cecchetto ha provato a dare l’esempio all’Arsenale: “Il riuso dei suoi spazi è la più grande opportunità per trasformare il turismo di massa in turismo colto: sogno un accesso d’acqua dall’aeroporto, educativo, che alleggerisca il carico su strada, con nuovi mezzi ecologici. Perché non sfruttiamo la diversità di Venezia? Architetture galleggianti, servizi in motonavi dismesse, nuovi input culturali indispensabili per avvicinare alla città vera chi vi arriva”, ora l’architetto si fa prendere dall’impeto retorico. “La quarta dimensione, il riflesso luminoso, il modificare le immagini, è l’acqua. Elemento sempre in movimento, mentre l’architettura è solida. Questo è il grande fascino della città”.

  
Mettiamo lo zoom sul territorio, l’appello di Cecchetto e Zucchi: “La natura soffia su Venezia. Fluida, tra ambiente e cultura. Altro che morta: diluita sulla sua laguna può diventare un modello urbano post-post-moderno. Città organica per eccellenza, manifesto dell’anti-zoning. Dove le funzioni si sovrappongono”. Pazienza se mancano le aree per bambini, le discoteche, le sale concerti: “Perché qui è tutto un gioco, un ballo, una musica”. E allora Venezia respirerà davvero.

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